Maria Paiato: Anna Cappelli – Uno studio

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Al teatro Ambra alla Garbatella, dal 26 aprile al 5 maggio, uno degli ultimi testi-mito della drammaturgia italiana messo in scena dal duo Maria Paiato-Pierpaolo Sepe.

Anna Cappelli – Uno studio

di: Annibale Ruccello

regia: Pierpaolo Sepe

con: Maria Paiato

scene: Francesco Ghisu

costumi: Gianluca Falaschi

luci: Carmine Pierri

trucco: Vincenzo Cucchiara

aiuto regia: Sandra Conti

Dal 26 aprile al 5 maggio 2013 – Ambra alla Garbatella, Roma

E’ un’interessante operazione quella compiuta con questo Anna Cappelli – Uno studio: il regista Pierpaolo Sepe ha scelto di prendere atto dello status ormai mitico del testo e di giocarci su, facendo iniziare lo spettacolo prima del suo stesso inizio, dalla sua leggenda. Ad accogliere il pubblico in sala è, infatti, il fondale in cui campeggia enorme il nome della protagonista con caratteri che richiamano quelli delle locandine degli anni ’60, periodo in cui è ambientata la storia. Nella mente degli spettatori – i quali, in questo caso, si presume conoscano già la storia, un po’ come quando si va a vedere AmletoAnna Cappelli – è già un mito, è già una star. Il regista lo sa e ne tiene conto, confezionando uno spettacolo rivolto in primis a loro, ai connoisseur, ma godibile anche per tutti gli altri.

Non si fa finta, insomma, di raccontare quella storia per la prima volta: si preferisce invece raccontarla partendo dal presupposto che tutti la conoscano già. Ciò comporta certe sottolineature, certi garbatissimi ammiccamenti a un finale già noto, che possono anche far storcere il naso ad alcuni puristi o a chi non gradisce il risultante tono grottesco-noir, ma l’essenza dell’arte, in fondo, è quella di compiere delle scelte e portarle a termine. Con questo spettacolo il duo Sepe-Paiato fa questo, e lo fa in maniera egregia. Senza contare l’efficacia, propria del grottesco, di ingigantire, come una feroce lente d’ingrandimento, l’oggetto osservato – la gretta sottocultura del possedere della piccola borghesia degli anni del boom economico -.

Ispirate alla storia vera di una donna giapponese e adattate al contesto italiano dall’autore Annibale Ruccello – morto trentenne nell’86 -, le vicende narrate in Anna Cappelli sono quelle di un’impiegata piccolo-borghese ossessionata dall’idea del possedere, di avere cose che possa dire sue. Specialmente una casa. In guerra col mondo intero – con la sua padrona di casa la signora Tavernini, con i genitori che hanno dato alla sorella la sua stanza nella casa di Orvieto, con le colleghe, che ritiene pettegole e vane, con la cameriera Maria che accusa di gelosia e infine anche col compagno che poi divorerà -, Anna è disposta a scendere a diversi compromessi pur di poter abitare delle mura che possa chiamare proprie; icasticamente – e contrariamente alle didascalie originali del testo – l’ironia registica vuole che ella resti per il tutto in tempo in scena assolutamente priva di alcunché, se si escludono un paltò e una valigia. «La protagonista del dramma porta in sé la miseria degli anni in cui divenne importante avere piuttosto che essere. Il principio del possesso, che ancora guida le nostre vite, si affermò ingoiando tradizioni culturali nobili e preziose. Fu in quegli anni che Pasolini urlò il  dolore di chi avvertiva il pericolo che la sua stessa opera potesse perdere forza poetica e politica a causa di una dispersione drammatica di senso e di una tentazione di immoralità capitalistica. Fu in quegli anni che perdemmo l’onore. Fu in quegli anni che nacquero i cannibali, i padri della cultura odierna», chiosa Sepe.

Ma il cuore pulsante di questo spettacolo è lei, Maria Paiato, l’energia, la precisione, l’espressività fatte corpo e voce. Per sé, ne ha, e anche di più, perché senza apparente sforzo riesce a farci vedere gli interlocutori della Cappelli, mentre senza sbavature, ficcante, inserisce azioni e beat non tra una frase e l’altra, ma addirittura tra una parola e l’altra, arricchendo di significati il testo che, pur magnificamente costruito, rischia di essere reso banalmente da interpreti anche brave, ma meno fini.

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