Al Teatro Argentina di Roma, dal 30 gennaio al 17 febbraio 2013, è in scena La Serata a Colono di Elsa Morante. La regia di Mario Martone coinvolge il pubblico dell’Argentina nell’atmosfera del reparto Neuro-deliri a cui è approdato il vagabondo Edipo; lo folgora con l’attualità della sua vicenda e con l’eternità delle domande che da millenni assillano l’Uomo.
La serata a Colono
di: Elsa Morante
regia e scene: Mario Martone
musiche: Nicola Piovani
con: Carlo Cecchi (Edipo), Antonia Truppo (Antigone), Angelica Ippolito (Suora), Giovanni Calcagno, Salvatore Caruso, Dario Iubatti, Giovanni Ludeno, Rino Marino, Paolo Musio, Franco Ravera (coro), Victor Capello, Vincenzo Ferrera, Totò Onnis (guardiani), Rino Marino (dottore), Francesco De Giorgi (tastierista), Andrea Toselli (percussionista).
fondale: Sergio Tramonti
costumi: Ursula Patzak
luci: Pasquale Mari
suono: Hubert Westkemper
aiuto regia: Paola Rota
Dal 30 gennaio al 17 febbraio 2013 – Teatro Argentina, Roma.
La scena è spoglia: la occupano una barella illuminata dalla bianca luce di un neon, una sedia e poco altro. Prima ancora che il palcoscenico esca dall’ombra si odono le voci degli attori, ma non vengono dalle quinte. Mario Martone decide di non circoscrivere lo spettacolo al limite del palcoscenico e d’un tratto la platea è invasa dai claudicanti e deliranti personaggi del coro dei ricoverati: si spargono tra le file, si accovacciano dietro le poltrone ed infastidiscono gli spettatori del primo ordine. Su, nei palchi più in alto, sale il brusìo misto di lamenti e vociare sconclusionato; sembra di trovarsi alla soglia della voragine infernale. I ricoverati del reparto Neuro-deliri ripetono ossessivamente ognuno la propria frase, immobili nella forma che altri per loro hanno scelto. Sono vittime simbolo dell’azione della realtà sull’individuo inconsapevole, coinvolti in un male così impalpabile, eppure così presente. E al pubblico, non solo è dato assistere a questo martirio incosciente, ma parteciparvi: il reparto Neuro-deliri,« nell’interno del policlinico di una città sudeuropea», non è sul palcoscenico, ma serpeggia in platea, invade l’intero teatro, è la realtà che ci circonda quotidianamente.
Carlo Cecchi, moderno Edipo, si stanzia immobile su una barella per l’intera durata della rappresentazione, con gli occhi appena colpiti, coperti da una benda insanguinata. Dialoga con se stesso in un flusso di coscienza avvolgente al quale lo spettatore non riesce a sottrarsi. La sua voce è una litania monotona, secondo le stesse indicazioni di Elsa Morante, che sembra simboleggiare una stanchezza intellettuale che disarma. La vita lo ha letteralmente travolto con il suo divenire: è lunga e disastrosa la sua storia clinica letta svogliatamente da una delle bocche di quel guardiano a tre teste. I suoi occhi hanno conosciuto molti paesaggi – «è un camminatore», assicura Antigone, la straordinaria Antonia Truppo, unico personaggio sul palco ad essere gloriato della Grazia dell’ingenuità, salva dunque grazie ad una spensieratezza fanciullesca che ricorda la gioia di Useppe per i suoi stivaletti il giorno del rastrellamento del Ghetto di Roma – e la sua mente ha scandagliato le profondità della ricerca di senso nella cultura – «ha letto tuttiilibbri» – e nell’incontro con l’altro – «s’è imparato le parlate di tutte parti»-. Come nella frenetica ansia conoscitiva dei collezionisti barocchi che si affannavano nella raccolta di oggetti per combattere il timore dell’horror vacui, l’Edipo della Morante conduce la sua esistenza nel tentativo di afferrare il più possibile la molteplicità della realtà, e in ognuno di quei tentativi vive la speranza della redenzione, puntualmente abbattuta da un male che «è un punto solitario di domanda nel vuoto». E forse è proprio nella scoperta di aver esaurito questa affannosa ricerca, che non ha retto il colpo troppo violento dell’irraggiungibilità del Vero e ha deciso di intraprendere la via ascetica della cecità, chiudendo gli occhi davanti ad una realtà deviante e deviata. «Nella mia cecità spasmodica e corrotta adesso io vedo cose nascoste alla innocente salute». Una chiusura al mondo che richiama la lucidità dello stato di angoscia dell’esistenzialismo tedesco. Quella di Edipo sarà una vita percorsa nei labirinti mentali della ricerca di Senso, appagata infine dalla consapevolezza che il dolore è l’unico frammento di Verità concesso.
«Però il dolore è certo.
E’ la mia presenza. E’ mio. Io non sono uno che assiste al dolore
di un tale Edipo. Sono io
questo dolore.»