Lo scorso 24 Giugno alla Casa del Cinema di Roma, in occasione del Medfilm Festival 2013, è stato proiettato Rengaine, il primo lungometraggio dell’attore e regista Rachid Djaïdani. Il film narra la storia di Sabrina e Dorcy, due giovani «promessi sposi» parigini che, a causa della loro differente appartenenza culturale, incontrano l’ostilità e l’incomprensione dei propri rispettivi universi familiari.
Rengaine, di Rachid Djaïdani, Fra 2012, 75’
Regia e sceneggiatura: Rachid Djaïdani
Montaggio: Julien Boeuf, Rachid Djaïdani, Karim El Dib, Svetlana Vaynblat
Fotografia: Julien Boeuf, Rachid Djaïdani, Karim El Dib, Elamine Oumara
Produzione: Rachid Djaïdani, Anne-Dominique Toussaint
Musiche: Steve Argüelles
Parigi è lo sfondo opaco e ingiallito di questo dramma che ci appare come la più classica delle storie d’amore. Dorcy, giovane artista poliedrico in cerca di una realizzazione professionale, vuole sposare la bella Sabrina. I due si amano teneramente e progettano una vita insieme, ma un tabù culturale ancora ben radicato rende problematico il conseguimento del loro desiderio: lui, infatti, è un nero di religione cristiana; lei, al contrario, una bianca maghrebina musulmana. Sabrina è tra le più piccole sorelle di una famiglia enormemente numerosa, composta da ben 40 fratelli, il maggiore dei quali, Slimane, si oppone strenuamente al matrimonio dei due, visto come un sacrilegio e un’intollerabile offesa alla propria cultura.
Insomma, niente di nuovo, come sembra suggerire il titolo del film, «Rengaine», ovvero «refrain», «ritornello», «cosa ripetuta». La storia dei due amanti, un vero e proprio topos della letteratura, rievoca istantaneamente il dramma di Romeo e Giulietta, per non citare che il più celebre dei tanti esempi di cui i giovani Dorcy e Sabrina appaiono fedeli «reincarnazioni». Ad evitare ogni sorta di banalizzazione “arabofobica”, Djaïdani rappresenta il pregiudizio come un mostro a due teste, ben presente anche nelle menti degli amici e parenti di Dorcy: i primi commentano sbrigativamente di non concepire le unioni tra neri e arabi, anzi addirittura sembrerebbero condividere la posizione di Slimane in virtù della sua condivisibile “razionalità”; del punto di vista dei secondi, invece, riceviamo un’esemplificazione attraverso le parole della madre del ragazzo, desiderosa di ricevere dei nipotini “nerineri”.
Magistrale la rappresentazione della complessa psicologia di Slimane: anche qui Djaïdani rifugge ogni manicheismo banalizzante, e ci risparmia – fortunatamente! – la delusione di assistere ad uno scontro tra buoni e cattivi. Slimane è un uomo fortemente contrastato tra le istanze rigorosissime che una millenaria tradizione culturale gli impone in qualità di fratello maggiore di una famiglia musulmana, e la disposizione spontanea pre o extra-culturale di un individuo che sente, pensa e ama anche e soprattutto al di fuori del proprio orizzonte di rappresentazioni: anche lui, infatti, come sua sorella, coltiva una passionale quanto inconfessabile relazione con una “straniera”, una ragazza ebrea della cui esistenza tiene tutti quanti all’oscuro. Slimane scorge nell’emancipazione di sua sorella Sabrina la libertà psicologica alla quale anch’egli anela nel profondo di sé, ma dalla quale lo tiene lontano la soffocante responsabilità cui si sente vincolato.
Alla fine del film, in una scena dal sapore epico e dall’impatto emotivo davvero potente, Slimane chiede perdono a Dorcy al termine di una preghiera ad Allah forse ricordata o forse recitata interiormente prima del gesto di riconciliazione. Anche qui la sensibilità mai retorica di Djaïdani merita un appunto: la sequenza rappresenta vividamente tutta l’umanità dei due uomini, la sofferenza che si trasforma in un’apertura del cuore, il peso e l’angoscia che porta con sé l’istante della decisione, la resistenza al perdono, timida e al contempo commossa, di chi è stato offeso.