Michele Mari: albori di poetica leopardiana

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Michele Mari ci accompagna in un orizzonte di lupi e mezzadri, inquisitori e buie biblioteche, Cerberi e Conti maledetti. Lo seguiamo con timore e tremore, nella speranza che la prossima luna piena non ci colga impreparati.

 

Titolo: Io venìa pien d’angoscia a rimirarti

Autore: Michele Mari

Editore: Cavallo di Ferro

Anno I ed.: 2012

 

In ognuno di noi alberga un’ossessione. Talvolta è antropologicamente condivisa: l’inevitabile morte, l’altrettanto inevitabile Dio, la vicina di casa che prima o poi sicuramente si concederà e così via. Altre volte – e in questo incorrono soprattutto gli animi più inclini alla meditazione – è un tarlo, un parassita, che lentamente apre varchi sempre più ampi e profondi, inghiottendo ed annullando ogni altro pensiero.

E capita che così nasca il genio – il cui confine con la pazzia è, come si sa, evanescente quanto le artistiche contemplazioni di generazioni di mistici – in un processo che eccede ogni verosimiglianza: terreno ideale, quindi, per un narratore.

Michele Mari ci consente di sbirciare nel diario di un giovane di nobile famiglia, Orazio Carlo, il quale annota, tra il 9 febbraio e il 9 maggio del 1813, la straordinaria metamorfosi di suo fratello Tardegardo Giacomo. Metamorfosi che sarebbe del tutto insignificante nell’economia generale del mondo e che avrebbe al massimo arricchito le gialle pagine di un obliato bestiario, se non rappresentasse il principio di una delle più eccezionali avventure poetiche dell’umanità.

Perché anche il lettore meno accorto, o a cui avessero strappato la copertina con il titolo, non potrà rimanere indifferente al sommarsi di allusioni e sinestetiche suggestioni: la biblioteca, la salute cagionevole, l’ermo colle, lo studio matto e disperatissimo, la predilezione per i classici a scapito degli esercizi devozionali materni, la luna!, il vero più vero del vero… Tardegardo Giacomo nasconde in filigrana la formazione poetica di Leopardi.

Leggere i diari del fratello significa entrare nell’intimità domestica di una possessione, condividere lo stupore e la meraviglia nel non riconoscere più il calmo, posato, pacato Giacomo nel suo alter ego imprevedibile, trascinato dalla forza di un’idea. Ma non un’idea qualsiasi: la più bella idea, l’idea che solamente un poeta – o un folle! – può concepire e desiderare così profondamente da rendersene strumento, da lasciarla incarnare in sé.

Il resto è l’inverosimile, che volentieri leggiamo.

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Redazione

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