Casa delle Culture, 18 ottobre, va in scena Moloch: danza, musica e poesia della compagnia Greenager. Un excursus all’interno delle variegate forme della fragilità umana, da cui disperatamente svincolare, per poi accorgersi di annegarvi ancor meglio: un mare comune, tutti sulla stessa barca.
Moloch o della fragilità
Scritto e diretto da Roberto Risica
Con: Alessandra Angelucci, Sabrina Broso, Massimiliano Frateschi, Teodora Grano, Alessandro Lanza, Roberto Risica
Scene: Selena Garau
Costumi: Oncut Studio
Musiche: Angela Bruni
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Dal 18 al 20 ottobre 2013 – Casa delle Culture, Roma
Una sera: gli attori, la danza e la parola, un pubblico, una musica. Una sera: il teatro, fuori la partita, forza Roma, due a zero, goal! Una sera… ho sentito un urlo. Quella sera: c’era Moloch. Sul palco sei personaggi, fuori campo una voce: chi è che parla? La mimica seminava la distanza tra il detto e l’agito, la danza parlava, la voce fuori campo si muoveva, copriva i confini tra il suo e il nostro senso, il pubblico gridava internamente l’urlo della voce che non vedeva, la credeva propria: ma chi è che parla? Siamo noi, oppure è Moloch. È un mostro, lui mangia, uccide, spezzetta. Lo dice il mito, lo ridice Roberto Risica. Moloch è nelle nostre voci, è nel blues dei nostri affetti, nella macchina del nostro agire, nella sigaretta fumata del nostro avvenire; fumo, bolla di sapone, un urlo rabbioso che vola: fragilità umana. Siamo proprio noi. Moloch è la nostra voce: fuori campo.
«Ma tu come fai?», con la paura di perdere tutto, con la furia di non essere libero, con il dai e dai del «non sono io e questa vita non era fatta per me», come fai? E se sei un pubblico, come fai a rispondere a una voce strappata e a un personaggio che con gli occhi rossi te lo chiede? Ti dici che è soltanto danza, pensi che è solo una voce, un palcoscenico, la Casa delle Culture e che fuori esultano per la partita di pallone… no! La voce è la tua, la danza è finita, il palcoscenico è diventato vita e le grida di fuori per un goal ne sono l’accidentale rappresentazione, la finzione di un grido. Stiamo tutti fingendo. Un urlo alla Ginsberg, un corridoio di collera inespressa, gridiamo per un goal e dentro c’è l’urlo represso da un silenzio di cancrena, perché non possiamo chiedere aiuto e «siamo diventati il contrario di urlo». Eppure «noi siamo solo confusi, credi. Ma sentiamo. Sentiamo ancora. Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci di amare qualcosa».
Una drammaturgia e una composizione scenica che coniugano astrazione e metafora alla precisa intenzione del non disperdersi, ogni oggetto ha una funzione esaudita, è il gap dell’urlo al contrario, l’espediente teatrale al servizio di ciò che non si può raccontare. Ma il pubblico vede. La musica gli prepara la gola e l’attore lo spinge a deglutire. Accade perché siamo noi, siamo Moloch. Tuttavia, l’autore crede in una salvazione, crede nel teatro come voce di ciò che non diciamo, drammaturgia dell’inespresso e coreografia di quel che siamo: fragilità, contraddizione, impotenza. Propone una scena surreale e beckettiana per esprimere la paura, un’atmosfera delicata per parlare di semplice umanità, un testo poetico per credere che la bellezza possa accarezzare il vagito straziante che perpetriamo. In fin dei conti, bastano un carrello al parco giochi, un pupazzo di Pinocchio, un quadro, un cane giocattolo, una scarpa stravagante: ci legano l’uno all’altro, più che una corda che ci strattona, ci giustificano il rimanere vicini. Poi, nel finale, tutti nel carrello. Fatalmente fragili, come bolle di sapone: a soffiare nel cerchietto.