Titolo italiano “L’arte di vincere”
Regia Bennett Miller
Soggetto dal romanzo di Michael Lewis
Sceneggiatura Steven Zaillian & Aaron Sorkin
Fotografia Wally Pfister
Montaggio Christopher Tellefsen
Scenografia Jess Gonchor
Costumi Kasia Walicka-Maimone
Musiche Mychael Danna
Cast Brad Pitt, Philip Seymour Hoffmann, Jonah Hill, Robin Wright, Chris Pratt, Kathryn Morris
Produzione Brad Pitt, Michael De Luca, Rachael Horovitz (Scott Rudin Productions – Usa)
Durata 133 min.
Il motto di Billy Beane ha avuto proseliti nella contemporaneità del baseball. Billy valuta i giocatori secondo l’OBP (on base percentage), ma renderli parte del gruppo della squadra Oakland Athletics non è un gioco da ragazzi, considerando che gli Oakland sono una piccola società senza soldi e con fame di vittorie. Billy Beane è il loro general manager, ex giocatore dal talento eccezionale ma dal rendimento deludente nella Major League. Dall’incontro fortuito con Peter Brand (l’ottimo Jonah Hill), giovane laureato in economia a Yale che Billy assume come proprio assistente, ha inizio una fruttuosa collaborazione, lungo un percorso di ridefinizione delle coordinate di valutazione degli atleti di livello: non più il nome ridondante ma tanti discreti giocatori utili al gruppo ed al contesto.
Beane (interpretato da un mirabile Brad Pitt, in un ruolo che resterà nella memoria del cinefilo per lungo tempo), costruisce un team di valore andando a rattoppare le falle lasciate aperte da alcuni pezzi grossi che hanno abbandonato alla fine della stagione 2001. Inizialmente le cose sono piuttosto in salita, la stampa, i collaboratori, persino l’allenatore Art Howe (il camaleontico Philip Seymour Hoffman, qui reso più indistinto del solito), gli remano contro cercando di ostacolarlo; l’allenatore, ad esempio, evita di seguire i suoi suggerimenti riguardo l’utilizzo di alcuni giocatori che faticano a rendere e su altri, al contrario, utilizzati con il contagocce o in ruoli che non gli competono. I contrasti costringono Beane a compiere delle scelte drastiche pur di raddrizzare le sorti di una stagione partita in salita e trasformatasi presto in burrasca. Grazie al suo intuito egli condurrà gli Oakland Athletics alla bellezza di venti vittorie consecutive, record assoluto della storia dell’American League. Ma, nonostante il record, alla partita decisiva della stagione qualcosa va storto, come previsto dal geniale manager. Billy Beane resterà lo stesso l’iniziatore di un modello non solo sportivo, ma anche di vita. La sua filosofia è stata imitata ed omaggiata. A giovarne non è stato l’artefice della creazione, piuttosto il meccanismo, quello stesso meccanismo che lo ha sempre condannato.
Steven Zaillian e Aaron Sorkin (pregevoli sceneggiatori) mettono nelle mani del regista Bennett Miller, un “libro” aperto a più strati di lettura, non solo un raro gioiello sul mondo dello sport, sul “dietro le quinte” attraverso gli stratagemmi vincenti/perdenti di chi dirige/gestisce il “baraccone”, ma anche un caloroso ritratto di una persona che sola contro tutti è costretta a combattere il sistema basato principalmente sul profitto, in nome di una ideologia che distrugge la funzione stessa del talento e la vitalità della costituzione dell’anzidetto.
Moneyball colpisce come una mazza da baseball: per il misurato equilibrio di tutte le componenti filmiche, per la sagace ricostruzione degli ambienti sportivi manageriali e da gioco, per l’energia, la critica e il sarcasmo che sono alla base dell’idea di Michael Lewis (autore del romanzo da cui è tratto il film) e per come sono stati equamente distribuiti nei dialoghi e nel piglio nerboruto del grande Brad Pitt, che con il personaggio di Billy Beane sembra un tutt’uno (come fu lo stesso per Philip Seymour Hoffman con quello di Truman Capote). In tutto questo, il film sa essere avvincente e saggio, coinvolgente, assennato e descrittivo, senza mai cedere al complotto dell’espositivo.
Billy Beane ha un temperamento nervoso ma non collerico, il suo atteggiamento deciso ma irrequieto lo porta a ingurgitare o sgranocchiare qualsiasi tipo di cibo gli capiti fra le mani oppure a non finire sugli spalti dello stadio per seguire le partite della sua squadra, vuoi per scaramanzia o per una malcelata fissazione di non coinvolgimento emotivo sul campo.
Moneyball passerà alla storia come il film sportivo più significativo della storia stessa del cinema, ed al centro di questo possente ricordo resterà il volto vispo e avveduto di Brad Pitt, stavolta veramente da Oscar (la spunterà davvero sul monumentale George Clooney bistrattato nel Paradiso Amaro?). Moneyball ha il respiro del grande cinema politico e/o di stampo civile, pur trattando tematiche apparentemente divergenti.
Moneyball, da noi L’Arte di vincere, riesce a donarti una spinta non da poco, come se il baseball, quello sport così distante dalla cultura italiana, fosse sempre stato quello più vicino. Magie che solo il cinema è in grado di offrire.
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