A most wanted man, di Anton Corbijn, Regno Unito, USA, Germania 2014, ‘121
Produzione: Film4, Senator Film, The Ink Factory, Potboiler Productions, Amusement Park Films, Demarest Films
Distribuzione: Notorius Pictures
A most wanted man è un thriller poliziesco soggettivizzato come mai prima. Si è all’interno dell’azione in una maniera dannatamente elegante.
Niente titoli di testa a parte il titolo in inglese del film, Lunghi e intensi primi piani della mdp che segue Philip Seymour Hoffman (alla cui memoria il film è dedicato) in ogni suo sospiro di sigaretta. Mdp sempre accanto all’azione e ai personaggi. Rarissime panoramiche. Nessuna isteria della dinamica poliziesca. Nessuna lentezza esasperata per creare pathos. Evolvere compatto e armonico della vicenda di spionaggio e colpo di scena imprevedibile da manuale, che toglie parole e respiro ad attori e spettatori. Titoli di coda minimali, al nero e ai lati dello schermo.
Günther Bachmann (Hoffman) è uomo d’azione, paziente e sapiente e uomo politico quando serve trattare con le Istituzioni. Azione e politica, azione è politica e viceversa: sgambetti e colpi bassi per ottenere la guida delle indagini, l’intero caso o la fama che ne deriva sono senza soluzione di continuità, in un triangolo che vede protagonisti gli americani, lo stato tedesco e il team antiterrorismo, inesistente e invisibile che, oltre al citato Bachmann, è supportato da una splendida Martha Sullivan (Robin Wright).
Un ragazzo musulmano, figlio di un militare russo che ha stuprato la madre cecena entra illegalmente in Germania. Inizialmente sostenuto da Annabel Richter (Rachel McAdams) avvocato per i diritti civili che cerca di aiutarlo a recuperare presso il banchiere amico di famiglia (Willem Defoe) un ingente somma di denaro ereditata dal padre, viene poi inconsapevolmente utilizzato come esca per ottenere la cattura del pesce grosso cattivo che foraggia Al Qaeda.
Il film dell’olandese Anton Corbijn (Control, The American) è un capolavoro assoluto, è perfetto. Dimentichi la fotografia, non vedi scenografia, dimentichi la sala in cui e proiettato non guardi niente altro che l’evolversi della storia, partecipe e coinvolto, e sei nella storia. La regia quando è corretta è invisibile, vedi solo il film. Dentro tutto questo c’è l’immortale interpretazione di Seymur Hoffman. L’attore che nella memorabile sequenza finale in cui il protagonista chiude semplicemente lo sportello della macchina e se ne va a piedi (uscendo di scena e dall’inquadratura) rievoca la stessa energia disfatta e grandiosa del Marlon Brando decadente de L’ultimo Tango a Parigi. Entrambi universali e meravigliosi, film e attori. Chapeau Phil, sei tu l’uomo troppo desiderato della trama.
Chiude la visione la struggente Hoist that rag di Tom Waits.