Al Teatro Vascello, dal 29 gennaio al 3 febbraio, Fabrizio Gifuni riporta in scena ‘Na specie de cadavere lunghissimo, parte di un ciclo dedicato a Giuseppe Bertolucci.
‘Na specie de cadavere lunghissimo
Da un’idea di: Fabrizio Gifuni
Da: Pier Paolo Pasolini e Giorgio Somalvico
Regia: Giuseppe Bertolucci
Con: Fabrizio Gifuni
Disegno luci: Cesare Accetta
Dal 29 gennaio al 3 febbraio 2013 – Teatro Vascello, Roma
Come il successivo L’ingegner Gadda va alla guerra, o della tragica storia di Amleto Pirobutirro, anche ‘Na specie de cadavere lunghissimo – sempre frutto della collaborazione tra Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci – è strutturato in almeno due grandi fasi: una dai contenuti più speculativi e un’altra più dinamica.
La prima è composta dall’unione, mirabilmente senza apparenti cesure, di brani tratti dagli Scritti corsari, dalle Lettere Luterane e da un’intervista a Pasolini rilasciata poco prima che venisse ucciso. Il filo conduttore è quello del nuovo fascismo che avanza, del consumismo che consuma le anime, riuscendo là dove il fascismo storico aveva fallito: modificare intimamente il modo di pensare di un popolo, di una società intera. I bisogni invadono il campo del superfluo, imprigionando le anime e le mente in una uguaglianza e una tolleranza false: l’uguaglianza non ha nulla a che fare con la dignità, ma con l’omologazione; di conseguenza, la tolleranza che può essere professata resta priva di significato. Anche la religiosità è scomparsa, preda delle esigenze del consumismo che tutto divora sul suo cammino, come dimostrarono, per primi, i jeans Jesus e la loro campagna pubblicitaria. L’inferno sta per arrivare a noi, ci ammonisce Gifuni, che non interpreta Pasolini, né lo imita, ma si limita a dargli voce e corpo – altro non serve, tanto lucide e spietatamente vere sono le parole che pronuncia -.
Nella seconda parte, che mescola gli endecasillabi romaneschi del milanese Giorgio Somalvico a frammenti di Ragazzi di vita, la prospettiva compie uno scarto improvviso, diventando quella di Pino la rana – identificabile con il Pelosi -. uno di quei riccetti amati dal poeta che dopo un omicidio si dà a una fuga errante e scriteriata a bordo della Giulietta rubata alla vittima, stesa per terra come ’na specie de cadavere lunghissimo, appunto. Se prima era la ragione, a parlare, adesso è l’impulso a farla da padrone – un impulso tanto verbale quanto fisico, che sorprende, stordisce, diverte, affascina -.
Un dualismo strutturale che riprende il dualismo tematico che più volte affiora in varie declinazioni nel corso dello spettacolo: come quello tra padri e figli. Se le colpe dei primi – il nuovo fascismo che avanza – vengono pagate dai secondi con lo svuotamento delle coscienze, con una nuova forma di barbarie che porta i giovani a trasformarsi da simpatici malandrini in spettrali assassini, Pasolini, tra i padri intellettuali della nostra epoca, diventa vittima di questa sua figlia ormai degenerata e l’attore, che nella prima parte ha vestito i virtuosi panni della vittima, nella seconda indossa quelli virtuosistici del carnefice, compiendo il tragico destino che è proprio dei profeti in patria.