NON PIANGERE: MOTHER 0. 3

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NON PIANGERE: MOTHER 0. 3

Regia, coreografia e testo Valentina Versino

Interpreti Why company

Musiche Mauro Bagella e Giacomo Citro

Voce Deborah Fredigucci

Adattamento e allestimento sonoro del testo Marialisa Monna – Emmebifactory

Grafica Valeria Loprieno

Foto Marcella Pretolani – Emmedue fotografia

26 Maggio – M.A.C. Teatro Libero, Roma

Un video proiettato e gocce di latte bianco che, a poco a poco, riempiono una ciotola in vetro. Già nell’incipit, Mother 0.3 sintetizza parte dei suoi intenti. Anzitutto, il suo nodo tematico: il legame, controverso ed irrisolto, con la madre. Nonostante questo sia appena evocato nel video iniziale, lo spettatore è immediatamente portato ad un collegamento tra l’immagine e il titolo: in un rapido cortocircuito, il latte sullo schermo diviene il latte materno, le gocce bianche che cadono una descrizione icastica della vita neonatale. Immediatamente, poi, è resa manifesta la vocazione plurale del progetto, plurale nei mezzi espressivi e nei linguaggi adottati.

Valentina Versino – fondatrice della compagnia di danza Why company – proviene dal teatro e tale provenienza è quanto mai evidente. Nel suo duplice ruolo, dietro le quinte da regista-coreografa e sulla scena da performer-danzatrice, fa infatti convivere con la danza linguaggi espressivi altri, dal video alle voci fuori campo.

Con Mother 0.3 scava in modo raffinato il legame materno, che i tre corpi femminili descrivono in toni asfittici, oppressivi, claustrofobici. Gli spostamenti e i movimenti delle danzatrici danno infatti l’idea di un’immaginaria gabbia sulla scena o di una sin troppo concreta gabbia domestica. L’attenzione degli sguardi e dei corpi, concentrata a più riprese su un punto indefinito alle spalle del pubblico, suggerisce l’esistenza di un possibile punto di fuga che, pure, sembra restare alle tre donne del tutto inaccessibile.

Il senso di oppressione è acuito dall’episodica intromissione di parole e cantilene fuori campo, che – dando voce ora alla madre, ora alla figlia – permettono di esplorare la loro asimmetrica interazione: comandi incalzanti e ingiunzioni dall’alto, resistenza e insofferenza dal basso. Non piangere, trattieni, sostieni il tuo comportamento, incalza la madre. Non ho cinque anni, protesta una figlia non più bambina. Mangia!, ordina la madre. Non mi piace, non lo mangio, non lo voglio, si lagna una figlia ancora bambina. Al suo immaginario surreale dà forma una voce cantilenante: Parlo con le forchette, la tovaglia è una veste da sposa. Sulla scena, nel frattempo, le tre donne danno visibilità al malessere indotto dai comandi materni, dalle aspettative riposte, dal dettame del buon senso.

D’un tratto, la tensione si distende. Dei sacchi calano dall’alto e le danzatrici lasciano cadere della farina su cui iniziano a danzare. Le note di una tradizionale ninna nanna e i ronds de jambe sulla farina bianca danno vita al momento più delicato, più sussurrato dello spettacolo. Quando, durante la lenta scena finale di denudamento, si ha il tempo di ripercorrere ciò che si è appena visto, osservando il corpo diafano di Valentina Versino, ci si accorge che il punto di vista che si è fatto proprio è forzatamente quello della bambina, del suo mondo immaginifico ed irreale. Parlo con le forchette, la tovaglia è una veste da sposa.

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Webmaster - Redattore Cinema

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