C’era chi provava imbarazzo, uscendo dal teatro, chi rabbia, chi un indefinito disagio. Avevamo tutti visto, sentito, reagito interiormente; eppure tutti eravamo rimasti immobili e zitti, sulle nostre panche, uno accanto all’altro, disciplinati come soldatini. Ma chi o che cosa, in fondo, ci aveva costretti all’immobilità? Chi o che cosa ci aveva obbligati a restare lì, inchiodati alla seduta, nel mutismo e nell’acquiescenza? La buona educazione? L’ovvia convenzione teatrale, per cui il pubblico incassa, ben contento di non doversi mettere in gioco? Un senso collettivo di rassegnazione imbelle, ormai introiettata? Tutti avremmo voluto squarciare quel tulle, quello schermo sottilissimo e fragile, che ci divideva dalla scena e dall’attore in carne e ossa, fisicamente presente a pochi passi o centimetri da noi. Tutti avremmo voluto avventarci su di lui, invadere la scena, con le più diverse intenzioni. E ancora il giorno dopo, al risveglio, ognuno di noi avrà pensato: «Perché non l’ho fatto? Perché non ho rotto quella stupida barriera?».
Noosfera Titanic è un evento imprevisto. Oltre il tulle contenitivo, l’attore è provocazione al calor rosso: è la bestia ferita a morte, è l’essere umano ripreso in diretta nel suo lento e solitario annegare, è il soldato impazzito, in un deserto lontano e ostile. Un dolore impudicamente sbattuto in faccia alla platea sfida la soglia dell’umanamente sostenibile; e, oltre allo spettacolo molesto del dolore, si scaglia sul pubblico l’offesa sensoriale di una voce ruvida, di un megafono stridente, di un bombardamento di sale, e di colpi, e di violenza, che un misero tulle pretenderebbe, ridicolo, di limitare.
Una montagnola di sabbia salina, al centro, e una sedia rossa di legno pieghevole si trasformano, nelle mani distruttive dell’uomo-attore, in un flusso continuo e destabilizzante di scenari apocalittici. Il superstite sull’isola deserta diventa il mozzo, che inutilmente si accanisce a svuotare con un secchio la stiva di una nave che affonda; al mozzo succede l’operaio, schiavo del proprio lavoro; all’operaio l’uomo disperato, che sfoga una rabbia vandalica su un mondo ch’egli stesso ha costruito; poi di nuovo il naufrago, in piedi su una zattera ormai ridotta in pezzi.
E la sedia di legno, rossa – che si fa secchio, pala, zattera – è davvero distrutta a colpi di violenza; la montagna di sale è davvero gettata in aria a palate; il corpo dell’attore davvero stremato dall’atto del vivere, davvero contaminato e graffiato dalla materia.
Tutto è grido di accusa e al contempo richiesta di aiuto. «Rompete le righe!», si ostina a urlare l’attore-uomo-soldato a spettatori inesorabilmente allineati e inerti, che non accorrono in suo soccorso, né osano opporsi a quella che, sempre più, si configura come un’esplicita aggressione a distanza.
Suonano pertanto provocatorie e sarcastiche, dopo i più gravi accessi di violenza o di dolore, le scuse che l’attore rivolge al pubblico per averlo forse ferito, forse solo disturbato, con le proprie esternazioni: «Scusa». L’essere umano, ridotto all’impotenza da una società alla deriva, si sente privato perfino del diritto di ribellarsi, di esprimere la rabbia, di contattare il dolore. Più solo, più naufrago, più disperato che mai, l’uomo di oggi nel profondo si scusa per il fatto di esistere, si vergogna dei propri eccessi, dei propri incubi, delle proprie imbarazzanti regressioni infantili. O forse finge di scusarsi, significando invece insultare, consapevole del fatto che nessuno, mai, si alzerà a squarciare il tulle, il velo di indifferenza e di separazione che è la vera causa del naufragio collettivo.
Chi dei due ha più bisogno di essere protetto da a quella rete sottile, il pubblico o l’attore? Da che parte sta veramente la violenza?
La drammaturgia di Roberto Latini, dinamica e aperta, dichiaratamente incompiuta, sfida coraggiosamente gli eccessi e costringe a una riflessione sui linguaggi, sui contenuti, sul ruolo sociale del nuovo teatro. Sul finale, in un atto estremo di trasformismo, l’attore-autore integra nel testo e interpreta un frammento del Don Giovanni di Molière: è con voce e corpo d’uomo che un’indimenticabile Donna Elvira esorta il miscredente, in extremis, a trovare la giusta via, a emendarsi, per sottrarsi alla dannazione eterna.
Apertamente senza trama e senza finale, lo spettacolo di Roberto Latini include dunque rispettosamente il teatro classico, ma rilancia e ridiscute la scrittura teatrale contemporanea, ponendo al centro della riflessione l’attore allo sbando, naufrago solitario e non ancora rassegnato di un Titanic maledetto, destinato a inabissarsi.
NOOSFERA TITANIC
di e con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
aiuto tecnico Nino Del Principe
organizzazione e cura Federica Furlanis
promozione Nicole Arbelli
produzione Fortebraccio Teatro San Martino
fotografia Laura Arlotti
10-15 aprile 2012, Teatro Argot Studio – Roma
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