Obra Gregorio Graziosi | Festival di Roma

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obra_posterObra (Opera), di Gregorio Graziosi, Brasile 2014, ‘80

Produzione: Superfilmes

@ Festival Internazionale del Film di Roma

Obra è un film filosofico sull’architettura: dalle inquadrature lineari e geometriche fino alle scenografie auree, siano esse confezioni di medicinali, libri e librerie, faldoni e scaffali negli archivi e, infine, finestre, palazzi, arredi d’interno e interni arredati non sta parlando di architettura.

Obra è un film filosofico sull’uomo che, dalla costante attenzione alla figura archetipica dell’Architetto (Irhandir Santos), gestito unicamente come figura tragica di questo modello di mondo, ipercontemporaneo e ipercapitalista, a tutta la linea maschile della famiglia dentro cui gran parte della sceneggiatura scava come un bulldozer, non sta parlando di un solo uomo.

Per intenderci: dove tutto è architettura anche l’essere umano è una costruzione, un assemblaggio di materie emotive, un edificio di dubbi e una cattedrale di paure.

La storia passata dell’individuo è una determinante assoluta del suo comportamento attuale? Questa è la domanda, a cui cerca di trovare risposta Obra, film del brasiliano Gregorio Graziosi visto nella sezione Cinema di Oggi.[\pullquote]

Un castello di scelte, un ponte tra le generazioni e un tappeto volante di desideri. Domanda: può la fotografia urbanistica e architettonica diventare un film? Risposta: sì. Sì se c’è una storia pesante che sorregga le immagini, splendide e glaciali, immobili e industriali, infinitamente pallide di quell’alveare umano che è la città di San Paolo, capitale del Brasile.

OBRA

Anche la recitazione degli attori è down tempo, lenta, rallentata. Perché la storia è crudele, alla storia non si sfugge e, spesso, ti schiaccia a terra o ti lacera il corpo. Il corpo dell’Architetto sofferente di un’ernia del disco che gli limita la libertà fisica a pochi gesti semplici e la storia del ritrovamento di dodici corpi di deçaparecido, morti sotto la dittatura dei generali (come dodici sono gli apostoli che l’Architetto sta restaurando in una chiesa) che vengono ritrovati nel cantiere della famiglia dove sta per sorgere un magnifica costruzione circolare in vetrocemento, probabilmente una chiesa, l’ennesima della storia cristiana sudamericana. In realtà sono supposizioni: niente prova che questi corpi siano o meno deçaparecido. L’incontro ravvicinato con gli scheletri nella luce spettrale del cantiere notturno fa nascere il dilemma dell’architetto: essere o non essere complice dei delitti di famiglia? In attesa del primo figlio, la vicenda è simbolica: fino a quale generazione le colpe dei padri ricadono sui figli (e sulle figlie)? Fino a che punto è lecito o si può sopportare il lascito di una «pesante eredità» (queste le parole tragiche pronunciate dal nipote all’architetto nonno patriarca immobilizzato a letto con la cicatrice (architettura umana) più lunga anche di quella del padre? Fino a che punto si deve mantenere il segreto di famiglia? Perché non si possono spezzare le catena della prigione psicologica che costringono fisicamente gli esseri umani a vivere una vita bloccata, impedita e sostanzialmente inabile? Forse che oltre alla professione di famiglia dobbiamo ereditarne anche le grane di cui non siamo responsabili? Bisogna demolire ciò che è venuto male e restaurare la bellezza. Rischiando in proprio, consapevoli che è un obbligo spirituale, prima che morale, restaurare la verità.

Il bianco e nero della fotografia contribuisce a rendere più solidi i silenzi su cui il film basa il pathos della narrazione scritta. I silenzi e il rumore delle foglie giocano un’alternanza con rumori ambientali di ruspe, traffico, suoni metallici e motori.

Natura contro cemento, passato contro futuro, la malattia (cicatrice del delitto) è un sintomo di un malessere e solo eliminando le cause (i colpevoli, i corrotti, gli assassini) e non i sintomi (il dolore) possiamo agire per il bene dell’umanità

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Thriller utopico, freddo e metallico perché oltre al cemento e all’acciaio anche certi cuori e certi silenzi sono freddi e metallici e fanno paura. Utopico perché il breve respiro finale della nuova famiglia non cambierà mai milioni di respiri (però si può sperarlo). Chi è sepolto prima o poi riemergerà (rinascerà) e gli strati di città che conservano fosse di teschi e ossa che hanno vissuto vite criminalmente eliminate (dai conquistadores prima, poi dai dictadores) non possono essere coperte e dimenticate, prima o poi riemergeranno perché il futuro non cancella il passato, può solo disegnarlo più nitidamente. Magari su di un foglio millimetrato di dimensioni planetarie. Fantascienza dunque.

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Autore

Enea Tomei

Enea Tomei, poeta. Mai laureato in filosofia del diritto, scrittore, attore, fotografo, critico con se stesso e delle arti che gli piacciono. Cura la sezione musicale del Festival della scena contemporanea Teatri di Vetro, è caporedattore foto della webzine Nucleo, scrive canzoni, suona e straparla nella band folk ‘n rock PHAKE. Autodidatta in tutto, anzi DIY (anche se il diplomino dell'accademia teatrale ce l'ha), non crede nella reincarnazione ma pratica il miracolo e la telepatia. Consiglia la psicoterapia. Ha mandato tutti e tutto a quel paese per ritrovarsi al punto da cui voleva partire più di vent'anni anni fa. Contento, sì ma più vecchio...

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