L’Odin Teatret, la leggendaria compagnia danese diretta dal regista pugliese Eugenio Barba, è a Roma per un mese dal 16 febbraio al 17 marzo. Un evento che desta l’attenzione degli amanti del teatro, degli studenti, degli studiosi, degli addetti ai lavori e dei semplici fruitori. Una fitta agenda la vedrà protagonista di spettacoli, dimostrazioni, workshop, incontri e proiezioni. L’apertura è dedicata alla rappresentazione dell’ultimo lavoro di Eugenio Barba La Vita Cronica che sarà in scena all’Auditorium Parco della Musica fino al 21 Febbraio.
La vita cronica
regia e drammaturgia: Eugenio Barba con l’ensemble dell’Odin Teatret una produzione: Nordisk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La Abadía (Madrid), The Grotowski Institute (Wroclaw) testi : Ursula Andkjær Olsen e Odin Teatret attori: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley dramaturg: Thomas Bredsdorff consigliere letterario: Nando Taviani disegno luci: Odin Teatret consulente luci: Jesper Kongshaug spazio scenico: Odin Teatret consulenti spazio scenico: Jan de Neergaard, Antonella Diana musica: melodie tradizionali e moderne costumi: Odin Teatret, Jan de Neergaard direttore tecnico: Fausto Pro assistenti alla regia : Raúl Iaiza, Pierangelo Pompa e Ana WoolfDal 16 al 21 febbraio 2013 – Auditorium Parco della musica, Roma
Vai al sito dell’Odin Teatret
Un teatro Studio completamente modificato ospita gli spettatori dell’Auditorium Parco della musica. La piccola sala della struttura, l’ultima nata in termini di tempo, pare quasi irriconoscibile per la trasformazione operata dall’Odin Teatret. Lo spaesamento però è solo iniziale: i teli neri che circoscrivono lo spazio proiettano lo spettatore subito in uno spazio altro, in un tempo altro, un non tempo e un non spazio che culla i sensi e che cattura l’attenzione al massimo. L’abolizione della quarta parete e la dislocazione del pubblico su due gradinate ai lati dello spazio scenico ha, d’altronde, le sue origini nella rivoluzione teatrale di Opole, operata negli anni 60 dal grande maestro di Barba, il regista polacco Grotowski. Niente di nuovo per noi spettatori del 2013, ma un senso di riverenza per chi ha visto nascere e contribuito attivamente a questa rivoluzione. Il resto è dato dai pochi oggetti scenici, un telo bianco che ricopre un cadavere, una bara al centro della pedana, una parete i cui ganci da macelleria ospiteranno gli oggetti scenici.
La Vita Cronica è un tripudio di personaggi, di riti, di musica e di archetipi, come nella migliore tradizione di Holstebro. In un clima post bellico si intrecciano, senza mai essere realmente in contatto, delle figure umane di un intensità sconvolgente che trattano il corpo come carne da macello, che parlano di morte e guerra senza pietismo, ma con quella oggettività straziante di chi non ha più niente da temere, che raccontano di rifugiati, esili, deportazioni, dell’indifferenza di un occidente in cui si mangia anche quando non si ha fame e si beve anche quando non si ha sete.
E’ il dramma di un ragazzo approdato dall’America Latina in cerca di suo padre il filo conduttore di questo scenario fantastico, così ben delineato nell’immaginazione, ma non collocabile spazialmente e temporalmente nella realtà. Da questa storia si passa poi all’incontro con la vedova di un combattente basco il cui lutto ha la dignità dell’abitudine a questa condizione e la cui disperazione è così tagliente e bruciante nella sua brevità che sconvolge con una forza inaudita. Una rifugiata cecena, una Madonna Nera delirante e magicamente posseduta, una casalinga rumena che sotto l’apparenza felice cerca di suicidarsi durante tutto lo svolgimento dello spettacolo. Un avvocato danese, un musicista rock delle isole Faroe, due mercenari.
Un mondo fatto di solitudini, dove l’impotenza umana è sottolineata dalle carte da gioco, simboli di quell’azzardo e di quel fato che regola la vita umana. Settanta minuti intensi di perfezione registica. Non c’è mai un calo di attenzione, lo spettacolo ti ancora dall’inizio e ti trascina fino alla fine senza sbavature. Ogni movimento è calcolato maniacalmente, ogni dettaglio è perfetto, i simboli presenti nello spettacolo sono chiari ma non inscatolati, la recitazione è un esempio da seguire. La musica è sempre presente. Suonata, cantata o registrata ha la funzione di sottolineare in modo lirico o ironico ogni intervento degli splendidi attori. E così che “What a wonderful world” di Luis Armstrong ha un sapore amaro cantato dalla voce di chi cerca la morte in continuazione, e che i pezzi rock di sessantenni ancorati al mito della rockstar di un tempo risultano anacronistici e ridicoli. Ma è proprio la musica che risolve tutto alla fine. Sulle note di un violino, il ragazzo in cerca del padre, troverà una speranza, ma non dimenticherà di portare con se una pistola.
1 commento
Pingback: Intervista video a Eugenio Barba | Pensieri di cartapesta