Dal 14 al 19 maggio è andato in scena al Teatro Dei Conciatori il lavoro di Romano Talevi: Sabbie. Omaggio alla memoria della giornalista del tg3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, inviati nel 1994 in Somalia per un’inchiesta sul traffico di armi e di rifiuti tossici.
Sabbie
Scritto, diretto e interpretato da: Romano Talevi
Con: Rita Pasqualoni, Pierfrancesco Ceccanei, Antoinette Kapinga Mingu, Romano Talevi
Costumi: Mariella D’Amico
Scene: Verunska Nanni
Disegno luci: Luca Barbati
dal 14 al 19 maggio 2013 – Teatro Dei Conciatori, Roma
Sortiscono gli attori dal buio, tesi e inquieti, e nella luce poi si fermano: parlano. Ma i monologhi di questo spettacolo non parlano da soli e i dialoghi rispettano il silenzio; le parole sono una denuncia, i pensieri la memoria. Una strada nel deserto, Sabbie, sole, ogni uomo è intruso in se stesso e la voce tradita di una giornalista, Ilaria Alpi, ha una domanda che ritorna, gridata nel buio: «chi verrà, chi è che verrà?».
Un piccolo teatro, il Teatro Dei Conciatori, per una figura imponente, le sue parole sui giornali, alla televisione, soffiate tra i granelli di sabbia e gridate fino in fondo alla strada nel deserto. «Una linea lunga e nera che si snoda fin dentro il cuore del continente. Assomiglia ad una ferita sempre aperta, lunga e nera, infetta»… Una ferita marcia, che non ripuliscono i fiumi di moralismo e paura, che inducono un drammaturgo, come Romano Talevi, ad insinuare nel suo copione stralci di passato e confessioni della protagonista, Ilaria Alpi bambina, giornalista alle prime armi, come se ne avesse di armi: armi potenti le hanno avute gli altri, a Mogadiscio, quelle con cui l’hanno uccisa. Stralci di passato e confessioni di una reporter fatte a una donna somala che predice il futuro: raccontano il passato, predicono il futuro, ma non c’è presente. Che cosa resta da scrivere a un drammaturgo che ricordi Ilaria Alpi? Non c’è moralismo nella rappresentazione, sola narrazione, ricordo, punte di lirismo e temi drammatici, donne mutilate, ma una possibilità: parlare con la gente. Questo è il mio mestiere, spiega Ilaria, io parlo con la gente. E poi: «ricordiamoci dei morti, ma ricordiamoli vivi», declamano gli attori. Ilaria Alpi parla con la gente per cercare la verità, però fuori dilaga il nulla, c’è il deserto, una strada che copre reati, delitti, condanne. È l’Africa, quell’Africa in cui non c’è speranza. C’è la guerra, c’è l’infibulazione, ma che cosa cerca Ilaria Alpi? Che cosa può dire una giornalista, una giornalista bianca, poi? I dialoghi sono l’unica cosa che le resta, le interviste forse, due personaggi misteriosi all’interno di uno spettacolo in un teatro di Roma che alternativamente sulla scena le suggeriscono parole, le danno spunti, ma non la verità. Sono due voci, due informatori? No, loro non danno vere informazioni e non rivelano la loro identità. Chi sono? Dove stanno andando? E soprattutto, chi è che verrà? Un’eco tragica che s’espande nel buio scenografico, enorme. I due personaggi sono lei stessa, gli avvertimenti, le paure, che si avvicendano sul palco come pensieri nella testa, una banale finzione teatrale per la più grossa realtà biografica.Un compagno di viaggio, Miran Hrovatin (Romano Talevi), il suo operatore telecamera dipendente, l’alter ego, il gong che risveglia dall’intorpidimento della disperazione, lo specchio che aiuta a ragionare, finché ti ci rivedi. Poi uno sparo… Gli attori si fermano sulla scena. Ricordano.
Solo una domanda, ora: «chi verrà? Chi è che verrà?».