Regia: Ken Russell
Sceneggiatura: Ken Russell, Deborah Dalton
Fotografia: Amir M. Mokri
Musiche: Michael Gibbs
Montaggio: Brian Tagg
Cast: Theresa Russell, Benjamin Mouton, Antonio Fargas, Jack Nance
Produzione: Trimark Pictures, Lion’s Gate Films
Paese: U.S.A. 1991
Genere: Drammatico
Durata: 85’
“Sei come un ostaggio, ma nessuno pagherà per te” oppure “come cibo a portar via: facile, svelto e poco caro”. Così dice di se stessa Liz (Theresa Russell), protagonista nonché voce narrante del film, che in prima persona ripercorre, in una pseudo-intervista a metà tra documentario forzato e diario intimo, la sua storia di prostituta. Ventiquattr’ore scarse nella quotidianità di chi fa il mestiere più antico del mondo, tra il cemento e l’immondizia umana di periferia, il tutto condito con ricordi di vita confessati a tu per tu, quasi a bruciapelo ad un pubblico che si suppone curioso e in attesa. Liz che finisce a stento le elementari, che s’innamora di un uomo palesemente sbagliato, ubriaco e violento, eppure lo sposa, ci fa un figlio e poi lo lascia, portandosi dietro il bambino; Liz che passa “dal servire sopra i tavoli al servire sotto i tavoli” perché si guadagna tre volte tanto e nella metà del tempo, anche se i clienti rimangono abissi imperscrutabili tutti potenzialmente pericolosi; Liz che vive di strada e in strada trova i soldi, il falso amore, la solidarietà tra simili, lo stupro, l’amicizia, le solitudini più disparate e disperate sotto forma di uomini. Liz che viene giudicata cattivo genitore e perde la patria potestà sul figlio, affidato ad una famiglia come si deve; Liz che dopo aver rischiato la vita in strada da sola, trova un protettore, Blake (Benjamin Mouton), sua croce e condanna, che le evita brutti incidenti, ma la isola come una cavia, la schiavizza, la sfrutta, la svende, l’umilia, la perseguita fino a tentare di ucciderla, poiché si è ribellata cercando la fuga ed è una mela marcia capace di contaminare le altre “sane”, quindi da eliminare. Liz che viene salvata da Rasta (Antonio Fargas) un vagabondo di strada, qualcosa in meno di un amico e qualcosa in più di un estraneo, che uccide Blake, proprio quando l’uomo l’aveva aggredita, regalando alla donna se non proprio la libertà, almeno un po’ di respiro, forse non per sempre, ma per quella notte almeno, sì.
La pellicola del 1991 porta la firma del regista britannico Ken Russell, definito “il Fellini inglese” dallo stesso maestro italiano in un loro incontro: recentemente scomparso fu a ragione definito pioniere del visionario e dell’onirico, dimensioni abitate da lui a livelli inusitati ed estremi, a volte difficili da difendere; da sempre artista eclettico, pieno di interessi, trasgressivo, provocatorio, abituato a suscitare scandali, psichedelico nelle sue traiettorie, proiettato verso mondi, filoni, generi, atmosfere oltre il visto, il conosciuto, l’attendibile o il decifrabile. Russell che si è trascinato dietro accuse di blasfemia e censure di ogni tipo, che ha spaziato dalla religione al sesso, dalla vita alla morte, attingendone in una quantità e con modalità tali da farne comunque discutere, in questo film, una delle sue ultime note realizzazioni, non fa eccezione. Già dal titolo, Whore (puttana in italiano), non lascia spazio a sottintesi, né si smentisce: lascia il segno come una dichiarazione di guerra a priori, scatena indignazione e morbosità, in una parole crea interesse.
Tratta di un soggetto realistico, cosa insolita per il cineasta, e si prefigge di svilupparlo seguendone e assecondandone tale natura. Infatti lo spunto è dato dalla pièce di David Hines Bondage (Schiavitù), basata su alcuni racconti che un tassista aveva ascoltato da una prostituta sua cliente, tutte storie realmente accadute, la cui realizzazione scenica non tradisce l’intento, né le origini.
Palpabile è lo sforzo cronachistico che si fa strada attraverso i toni della voce principale, quella di Liz, cui Theresa Russell dà grinta, forme, energia, voluta grossolanità e la bellezza di un angelo caduto. Il suo parlare è acceso, volutamente deformato, imitatore di una realtà parossistica e border line, sempre in allarme, a metà strada tra la fuga e lo strapiombo, che si auto-avvelena con la paura e il bisogno d’amore incolmato che hanno tutti; da una parte gli uomini, per cui le prostitute sono solo “cura breve e fuggitiva alla solitudine”, dall’altra le donne, disabituate a chiedere e a volere, indottrinate solo a dare e a soddisfare. Fa da contraltare, per un certo tratto, la riflessione di Blake, lo spietato sfruttatore che concede solo per pretendere e crea dipendenza: dalle sue parole emerge un universo popolato da donne messe al mondo e già rifiutate dalla società, nate con un timbro, un motto “offrire il loro corpo”, un cartellino del prezzo, di cui, pur potendo, non riuscirebbero a fare a meno. Come a dire, fatta la prostituta una volta, lo si rimane a vita. Tanto più che la legge non aiuta e la polizia prezzolata chiude un occhio.
E’ una miscela cinica e appassionata, disillusa e manichea che forgia un ritratto a tinte forti, senza filtri, semplice, conciso, a tratti molto più che sarcastico, quasi auto-ironico. In questo manuale amorale e veritiero si naviga tra la durezza del racconto, in sé non troppo sorprendente, la spavalderia dolceamara di Liz genuinamente sopra le righe e le storture sessuali, psicologiche, debordanti dei diversi clienti. Una galleria di casi umani di tutte le fasce e di ogni pretesa, quei dottor Jekill e Mr Hide della società che vanno a stordire i propri vuoti di vita nel sesso a pagamento. Ben lontani dall’amore e dalla reciprocità del piacersi, quel che rimane dal punto di vista emotivo secondo Liz è odio. “Io detesto i clienti e loro detestano noi”: da una parte la tentazione dall’altra il pentimento, se la donna è il peccato, l’uomo ne è la nemesi; da questo tipo di dinamica, che ha il sapore di una condanna biblica, è difficile aspettarsi evoluzioni positive. Semmai degenerazioni, violenza e brutalità, perversione fine a se stessa ed esposizione feroce del corpo umano il quale, nella fotografia calda della pellicola, non è né perfetto né patinato, ma nudo, caricaturato, volgare e ridondante nei costumi e nelle forme. Non trattiene nulla. Vive, anzi, è vissuto. Così nulla si salva, non un viso, né una mano, né una scarpa. E’ la ricostruzione mirata del mondo delle squillo che ben poco ha di bello o di edulcorato, non vi abitano modelle, né principi redentori, né cenerentole alla Pretty Woman, solo cani-padroni ed ossi da spolpare. E Russell lo sa.
Le voci dei protagonisti, i volti, ruvidi, irregolari, pieni di spigoli come gli scenari che agitano, si intrecciano in un monologo che poco lascia all’immaginazione, seguendo un montaggio che accosta i vari punti della storia come intermittenze di un unico fiume nero-fango. Dominano inquadrature semplici e lineari, per raccontare una realtà storta e malata, mentre l’unico sguardo inaspettato, che resta impresso come una visione intatta e radiosa è concesso a Liz mentre parla del figlio, distesa su una panchina, con i capelli biondi, liberi e sciolti e lo sguardo alla notte, immagine che il regista ci offre in verticale, non in orizzontale come si dovrebbe; l’unica nota sognante del film, un angolo di amore vero e duraturo che rende giusta anche una ragazza sbagliata.