Titolo originale: Badlands
Regia:Terence Malick
Sceneggiatura: Terence Malick
Fotografia: Tak Fujimoto, Steven Larner, Brian Probyn
Montaggio: Robert Estrin
Musiche: Mickey Baker, Howard Barnes, Harold Cornelius, Dominic John, Sylvia Robinson, Ethel Smith, James Taylor, George Aliceson Tipton
Produzione: Terrence Malick
Cast: Martin Sheen, Sissy Spacek, Warren Oates, John Carter, Ramon Bieri
Paese: U.S.A. 1973
Durata: 93’
Le sconfinate lande desertiche che dilagano nel Sud degli Stati Uniti, come isole scarne e incustodite, messe lì solo a distanziare uomini da uomini e a vederli vivere, sono lo scenario scelto per questo film del 1973, con cui Terrence Malick, cineasta filosofo, atipico e schivo, firma il suo primo lungometraggio da regista. Probabilmente ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto intorno al 1958, proprio nelle stesse zone qui ritratte, la storia parte da una piccola cittadina del Sud Dakota dove vivono Kit (Martin Sheen), giovane di 25 anni, addetto alla raccolta dei rifiuti, irrequieto ed insoddisfatto, che sembra volere ben altro dal mondo che lo ignora, ed Holly (Sissy Spacek), di dieci anni più giovane, orfana di madre, ingenua, sognatrice, che al mondo s’inizia ad affacciare. Per noia, per caso, per amore o per un qualcosa di simile che non s’indaga, ma resta dato di fatto, i due s’incontrano, si frequentano e non si separano più. Decidono di lasciare la città insieme, ma il padre di lei, contrario all’ unione, si oppone, e Kit, con impensata facilità, lo uccide. Ai due neo-criminali non resta che darsi alla macchia; chiunque si metta sulla loro strada viene “ammazzato come una mosca”: è sempre Kit a premere il grilletto, come fosse la cosa più naturale del mondo. Holly osserva, quasi fosse un bagaglio in viaggio e nulla più. In fuga nel Midwest, da stato a stato, per arrivare in Messico o magari in Canada, i due scappano senza voltarsi indietro, senza malincuore, senza rimorsi tangibili. Fino a quando, esausta di vivere e braccata come un animale cacciato, Holly smette di fuggire: lascia Kit, con quella stessa inaspettata naturalezza con cui gli si era legata e si consegna alla polizia. Poco dopo sarà la volta anche del giovane, che abbandona per sua scelta “il campo di battaglia” da eroe, vinto, ma indomito. A differenza della compagna, però, pagherà molto caro il suo debito con la giustizia.
Pur essendo stata, questa pellicola, lo spunto per altri ben noti lavori, di altrettanto notevoli registi (basti citare Natural Born Killers di Oliver Stone, o Cuore Selvaggio di David Lynch o ancora Thelma & Louise di Ridley Scott), vedere su grande schermo una simile storia, così grezza e intimamente disperata fa riflettere: si tratta di un’odissea del non ritorno, una parabola secca e amorale sull’irrefrenabile bisogno di trovare il proprio posto nel mondo, a tutti i costi.
E’ anche una lente d’ingrandimento su cosa significhi avere vent’anni nella periferia desolata dell’interland americano e sopravviverci “da vivi”, qualunque cosa ciò rappresenti o comporti.
Lo sguardo che conduce è ben specifico: straniato, intatto, non contaminato dalla scia di sangue che i due giovani si portano dietro. Per tutto il film si instaura una dimensione in cui non si dà peso all’errore, non c’è il gusto della follia omicida, non s’indugia sul particolare, né c’è traccia di pentimento: solo l’estrema, irrazionale “banalità del male”, come diremmo oggi.
Le armi compaiono nelle mani dei personaggi come in un numero di prestigio; le parole sono rade e inadatte; la morte non ha uno spazio riconosciuto, bensì appare e scompare, senza troppi perché: ivi compresa la condanna capitale di Kit, non esibita, ma raccontata in differita, quasi fosse un avvenimento qualsiasi, visto che, se la vita è un gioco, non si prende mai sul serio.
Perché si scappa; perché si “esplode”; cosa si cerca fuori città e fuori di noi.
Lo sbando, l’amore, il divertimento, “lo spasso” come dice Kit, che molto ricorda in modi di fare e abbigliamento, il suo mito James Dean, non a caso “eroe maledetto”; o invece si fugge per l’irriducibile e più che legittima aspirazione ad un luogo sicuro, un paese magico oltre la portata delle leggi comuni. Pur sempre di felicità si tratta: acerba, irresponsabile, pericolosa, ma felicità. Così difficile da scrutare in certe praterie inerti del Montana. Probabilmente qui nasce “la rabbia giovane” del titolo; qui si scelgono le “badlands”, le cattive strade e le cattive compagnie di una vita. Balorde sì, ma capaci di farti sentire finalmente al mondo e terribilmente libero.
Per raccontare quest’universo triste, delicato e dirompente, Malick si affida, come spesso ripeterà in altri suoi capolavori, ad una voce narrante esterna, quella di Holly, che sembra leggere estratti del suo diario e che ci rimanda, con spiazzante freddezza e stridente lucidità, alla cronaca di un viaggio incosciente, spietato, idilliaco, di due vagabondi, forse innamorati, forse no, persi nelle radure che si scelgono per tana, apatici “Adamo ed Eva” di un paradiso capovolto. Hanno poco più di nulla alle spalle e sono animali: dietro loro intravediamo abissi esistenziali, vuoti e senza prospettiva. Davanti, una corsa priva di regole per ottenere dalla sorte più di quanto lei stessa abbia programmato per loro.
In questo modo si evita ogni commento o presa di posizione; non c’è giudizio sulla vicenda,né espresso, né indotto; non si predica nessuna via: non c’è bene e non c’è male; la storia, come insegna la vita, è quella che è, senza sconti, né accenti, servita in una spossante uniformità che quanto più è omogenea, tanto più arriva allo stomaco.
Difficilissimo riuscire a staccare gli occhi dai due giovani protagonisti, Martin Sheen e Sissy Spacey, magnetici e deliranti, belli e perduti; nulla regge il loro confronto perché null’altro c’è attorno a loro;così fisicamente diversi, così spiritualmente simili, si compensano in un’altalena di umori tali da ricordare certe favole nere di origine nordica, dove tutto è concesso eppure tanti sono i torti. Teneri quando ballano nella notte un romantico Nat King Cole in mezzo alla strada; inquietanti quando, ad un passo dalla resa, si dicono addio, come fossero arrivati alla fine di una partita. Sono soli, dentro e fuori: il mondo non li accoglie, anzi; tutta la natura -e in Malick questo è un punto ricorrente- aleggia lontana, come testimoniano le lunghe inquadrature a lei dedicate. E’ muta e inerme spettatrice, osservatrice privilegiata, ma tenuta a distanza, ruvida, sgraziata, indeformabile, come la vicenda narrata, non aiuta e non comprende, non condivide con l’uomo, ma, impassibile, sembra preannunciarne l’inevitabile resa.
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