Youth, di P. Sorrentino, Ita/Fra/Svi/Uk, Ita 2015, 118′
Produzione Indigo Film, Pathé, Medusa Film
Distribuzione Medusa Film
@ dal 20 maggio 2015 al cinema
“Si prega di far attenzione al manifesto e incipiente rischio di loop”, è questo ciò che metaforicamente sembra volerci dire la cantante, posta su una rotonda pedana mobile, della prima scena di Youth, film di Paolo Sorrentino in concorso al Festival di Cannes. Insieme a lei, tutti gli “artistucoli” che passano su quella pedana senza lasciare traccia di sé, né sui protagonisti del film né sugli spettatori, sembrano volerci dire la stessa cosa.
Sorrentino afferma che Youth è: «il mio film più intimo». Una dichiarazione che di quella preghiera intrinseca – citata a inizio articolo – se ne frega, sublimandola nelle incredibili capacità tecniche, comprovate dal perfetto utilizzo di carrelli, primi piani, long take, rallenti, zoomate, messe a fuoco e della colonna sonora, su cui il regista si è oramai comodamente adagiato nella sua progressiva e triviale trasformazione da teorizzatore di un’estetica cinematografica in cui monadi esistenziali faticavano a entrare in contatto con il mondo se non attraverso il loro stesso personale collasso – L’uomo in più, L’amico di famiglia, Le conseguenze dell’amore e, in parte, Il divo –, a icona pop di un estetismo diffuso e asettico in cui quelle stesse figure cadono in una serie di aforismi al limite del tautologico e in un’ovvia banalità, ricercata quasi pedissequamente, all’interno d’immagini costruite su un perfezionismo soffocante delle inquadrature e, spesso, su una sterile simmetria – This must be the place, La grande bellezza, Youth.
Tra il richiamo a La montagna incantata di T. Mann, il peregrinare da apolide di F. W. Nietzsche in Engadina e il più recente The Grand Budapest Hotel di W. Anderson, Youth si sviluppa tra la depressione da celebre e geniale compositore pensionato di Michael Caine e la spudorata ricerca del capolavoro/testamento del regista Harvey Keitel, avviluppandosi in un estremo manierismo di facciata, maldestro nel definire un pregnante quadro psicologico dei protagonisti e dei loro rapporti affettivi; cosa avvenuta per altro già in This must be the place, film che palesava una manifesta incapacità di fare i conti con la “figura del padre”. Sorrentino in Youth ci propina l’impossibilità di ridonare senso al mondo se non attraverso un già stato, ovvero una finta elaborazione, a cui fanno da contorno personaggi ben oltre il limite del non sense come il marxiano Diego Armando Maradona e il levitante monaco buddhista. Sebbene entrambi i protagonisti siano in parte la naturale evoluzione di Jep Gambardella e del suo blocco dello scrittore, ovvero solitudini egoiche alle prese col passato e incastonate tra quei cliché – Miss Universo! – e quelle anime intellettualoidi – gli sceneggiatori hipster – che ben si confacevano alla struttura cafonal de La Grande Bellezza, il loro procedere tra lunghe passeggiate, massaggi e bagni termali nell’albergo in cui risiedono, non ha mai il sapore della reale interrogazione sull’esistenza e sulla giovinezza, sia intesa come rammemorazione di un sentimento di gelosia per una donna di cui erano innamorati sia come momento di fecondità artistica.
Il cinema di Sorrentino e del suo «mi piace passare per vecchio» piuttosto d’incamminarsi sulla strada della piena maturazione autoriale – ovvero ciò a cui lo stesso regista sembrerebbe quasi pretenziosamente puntare –, ha intrapreso quella dell’inesorabile invecchiamento, una senilità precoce che lustra sì gli occhi con immagini artificiose, difficilmente perfettibili, ma che non li obnubila da un giudizio di vuoto e piatto formalismo. La sua ricerca di un cinema non narrativo a favore di un cinema dedito alla “riflessione” si affastella su una serie di sequenze che ci dimostrano come egli si sia seduto, compiaciuto, sulla stessa pedana dell’inizio del film: Ciak! Loop! Si gira!