Dal 20 febbraio al 3 marzo, la Sala Orfeo del Teatro dell’Orologio ospita la tragedia di Jean Cocteau La voce umana. Il testo è rivisitato dalla resgista Paola Maffioletti che ne propone un’attualizzazione ed una visione del dolore nella rottura di un rapporto amoroso senza barriere di generi.
La voce umana
di: Jean Cocteau regia: Paola Maffioletti con: Alessandro Ercolani video maker: Fabrizio Alini Caverna con la partecipazione in video di: Aldo Ferrara light designer: Fabrizio Cicero aiuto regia: Elisa PanfiliDal 20 febbraio al 3 marzo 2013 – Teatro dell’Orologio, Roma.
E’ evidente fin dai primi minuti in sala che la scelta della regista divergerà dal testo di Jean Cocteau: la scena si apre in una sala da bagno, un braccio maschile penzola fuori dal bordo e squillano successivamente la segreteria telefonica ed un telefono cellulare. La regista Paola Maffioletti sceglie dunque un’interpretazione in chiave attuale de La voce umana di Cocteau: elimina gli ostacoli temporali e al telefono d’epoca a cui risponde la centralinista sostituisce non uno, ma due telefoni cellulari; ed elimina i limiti di genere immaginando un amore omosessuale e affidando uno dei ruoli femminili più intensi che siano mai stati scritti allinterpretazione di un uomo, in questo caso ad Alessandro Ercolani. Secondo le parole stesse di Paola Maffioletti: «Ho voluto fosse un uomo a essere abbandonato da un altro uomo, proprio per sottolineare che i sentimenti non hanno sesso e che la fine di un amore può suonare perfino banale nella sua universalità».
Il monologo di Cocteau propone la tragica realtà della fine di un amore. E il realismo estremo voluto dall’autore concede al pubblico una sola versione della separazione: i personaggi sono due, ma sulla scena appare solamente la persona che subisce l’abbandono. E’ sorprendente come anche solo questo accorgimento apporti alla fruizione una incredibile profondità emotiva; il testo di Cocteau prevede infatti di lasciare spazio al terreno più fertile per la crescita dei sentimenti: il silenzio.
Il silenzio, o meglio il non-detto, è presentato come il momento della condivisione di un’emozione: in quelle brevi pause che percorrono il monologo, in cui il protagonista ascolta la risposta del suo compagno invisibile, chi guarda riesce ad insinuare se stesso e la propria esperienza. Il silenzio è quel luogo di libertà non contaminato da forme in cui è data l’occasione allo spettatore di intervenire e di incontrarsi col testo.
Un silenzio che viene agghindato dalla regia di Paola Maffioletti – forse ancora troppo arduo cercare di «rendere visibile l’invisibile», come direbbe Peter Brook? -, ed evitato. Gli psicologismi fanno irruzione sulla scena sotto forma di danze accompagnate da musiche, video proiettati sullo sfondo e luci colorate. Ognuna di queste forme concretizza l’idea di sofferenza, l’idea di nostalgia, l’idea di memoria entro argini che ne riducono l’universalità. L’impatto è dunque vertiginosamente ridotto e la platea non può fare altro che assistere ad un dramma estraneo e lontano dal proprio immaginario.