Dal 3 al 14 aprile Clôture de l’amour va in scena al Teatro Vascello, piéce del regista e drammaturgo nizzardo Pascal Rambert, premiato al Festival di Avignone del 2011. La chiusura è fine dell’amore e contesa sulle sue ragioni, tra due artisti che si affrontano sul palco agli estremi di una diagonale. È lo spazio della divisione, ma anche la riconfigurazione, per incisione delle parole sul corpo, dei continenti di certezza e inganno, fino a poco prima condivisi.
Clôture de l’amour
Regia e testo: Pascal Rambert
Traduzione: Bruna Filippi
Con: Luca Lazzareschi e Anna della Rosa
Produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione
Dal 3 al 14 aprile 2013 – Teatro Vascello, Roma
Due attori, un uomo e una donna, Luca e Anna, interpretati da Luca Lazzareschi e Anna della Rosa, mettono in scena la rottura. In una sala prove asettica, sotto un reticolo di luci al neon, si assiste ad un appuntamento dato per non incontrarsi più. È lui a cominciare. Un profluvio di risentimento e accuse tengono lei a distanza, nell’angolo opposto della sala, che immobile, a volte vacilla, nega lo sguardo, ma sempre la forma del corpo tende a contenere il movimento interno che le parole producono con il loro assalto. Lui parla, è il suo momento; lei ascolta, è superficie su cui s’infrangono le parole. Un intermezzo di bambini che intonano Bella permette ai due di scambiarsi le parti. Il corpo di lei, svuotato di voce, cerca parole per raccontare questo svuotamento, e, ritrovata la voce e un corpo in tensione macchinale verso l’altro, ricompone il proprio discorso. Restituisce l’umiliazione subita addebitandola, pezzo per pezzo, al discorso insensato dell’altro. La fine dell’amore è quella struttura in cui si spezza il legame tra il corpo e la parola. Si vede il corpo che soffre, ma l’altro non lo vede, per cui occorre raccontarglielo. E ciò che viene raccontato è in ritardo su ciò che è visto e su ciò che l’altro avrebbe dovuto sapere. Questa frattura è messa in scena come una divisione e ripartizione precisa del corpo condiviso a cui si erano dati gli stessi significati, come uno sdoppiamento in corpo duplice, maschile che parla per primo, un discorso dell’aggressione e della guerra che procede per razionalità affettata, e femminile che ascolta, con la recettività del corpo sensibile, sorpreso da colpi inattesi.
Nella prima fase lo spettatore assiste al modo in cui le parole tengono al proprio posto, e modificano il corpo che ascolta, pur nell’immobilità. Mentre i luoghi comuni della fine di una relazione sono esposti al pubblico nella loro inconsistenza, giocati con ironia, attraverso il tentativo di razionalizzarli con il linguaggio maschile della guerra, nella seconda fase il discorso femminile, in modo singolare, dissemina con la citazione i segni di appartenenza ad una cultura alta, mischiata alle parole del sesso e dell’incredulità.
Perché un amore si chiude così? Gli indizi raccolti sono il senso di imprigionamento, di finzione, espressi da Luca, personaggio maschile che si trova al servizio di un’idea di amore che è un monumento costruito dall’altra per poter amare se stessa. L’insicurezza affidata alle mani di qualcuno che promette di salvare, diventa rete e ragnatela. E si scopre la promessa non mantenuta, facile a diventare parola tradita, inganno. All’inganno di scoprire di fronte a sé solo un corpo ricettivo, che mostra solo la vulnerabilità ai colpi, corrisponde un incremento di rabbia. Il noi che doveva rendere più forti, che doveva costituire l’isola della verità in mezzo al mondo uniforme della banalità, si rivela solo il compito di prendersi cura delle debolezze dell’altra. L’ultimo appuntamento è proprio il luogo in cui si ributtano tutte le incapacità a costituire un Noi di potenza. Se l’Io rivendica la sua forza per sé, il Noi cade a pezzi.
L’altra di quel Noi, Anna, si trova nella posizione di dover rispondere alle accuse. Prima di tutto c’è il disprezzo per questa posizione, prodotto volgare della violenza, tradimento dell’isola di verità che non è finzione, monumento, mausoleo. Questi sono i significati che lei espelle, che restituisce come frutti di una logorrea autoritaria e inautentica. Lei rivendica per sé la capacità di coltivare un’idea dell’amore come un modo del coraggio, non tomba, ma raccolta di eventi poetici che ne hanno tracciato l’accadere. Questi eventi vengono sottratti alla divisione delle cose che spettano a ciascuno, libri, sedie, quadri, e ripresi, assunti come propri, in una enumerazione di ricordi a cui lei dice «Questo, lo tengo». La via d’uscita dalla paura diffusa dall’idea-mausoleo è molteplice: oltre alla riappropriazione dei frammenti poetici della relazione, c’è l’esposizione del reale dei corpi desideranti, «la bocca in cui hai goduto, i seni che hai stretto» e ugualmente lo smascheramento dell’accusa di finzione, che mescola lavoro e vita, entrambi sulla scena. Se l’idea che si ha dell’altra/o non corrisponde a ciò che lei o lui credono di se stessi, accusare di fingere, funzionale a escludere proprio ciò che l’altra/o crede di sé, è il modo più violento e semplice per impedire un dialogo in generale.
Il testo italiano è stato presentato il 4 aprile ed è una delle differenti traduzioni già redatte per la scena europea, mentre si preparano le messe in scena brasiliane, messicane e canadesi.