Regia Luchino Visconti
Soggetto da un racconto di Thomas Mann
Sceneggiatura Nicola Badalucco e Luchino Visconti
Fotografia Pasquale de Santis
Scenografia Ferdinando Scarfiotti
Costumi Piero Tosi
Musiche Gustav Mahler, Ludwig Van Beethoven, Modest Mussorgsky e Franz Lehár
Cast Dirk Bogarde, Björn Andersen, Romolo Valli, Silvana Mangano, Nora Ricci, Marisa Berenson, Mark Burns, Franco Fabrizi
Produzione Luchino Visconti (Casa Produzione Warner Bros. 1971 – Ita, Usa)
Durata 130 min.
Guardando Morte a Venezia, si ha l’impressione di guardare non tanto un film, quanto un vecchio album di fotografie sbiadite di un tempo lontano, fatto di trini e cappellini di paglia, costumi da bagno interi e sguardi non ancora abituati ad un obiettivo fotografico. E gli sguardi sono i veri protagonisti di questo film, quasi completamente affidato ad una meravigliosa colonna sonora, che paiono parlare più di qualunque voce, che sembrano emozionarsi e provare tutti quei meravigliosi sentimenti che alla pudica epoca non era permesso far trasparire dal volto.
Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde) è un musicista che si reca a Venezia per riprendersi da una crisi cardiaca. Nell’afoso lido colpito dallo scirocco (simbolo stagnante della crisi artistica che colpisce il professore), Gustav si innamora di Tadzio (Björn Andersen), un giovane polacco dalla bellezza statuaria. Il conflitto interiore porta il professore di musica prima a rifuggire questo sentimento così estraniante, poi a ricercarlo dal passato dell’uomo, in un susseguirsi di memorie e riflessioni contraddittorie. Mentre passioni, sentimenti, confusioni ed emozioni emergono dai continui sguardi dei due, il colera piomba inesorabile su Venezia …
La vita è una clessidra, sostiene Gustav, ti accorgi che sta finendo solo quando è troppo tardi. Proprio questo sono, lui e Tadzio: le due metà della clessidra, uniti da un sottile filo di sabbia tanto esile quanto implacabile. Si osservano, si scrutano, sono l’uno la metà dell’altro, si completano senza mai unirsi, come solo la bellezza più pura può fare. Tadzio è l’archetipo della bellezza, androgino, perfetto, scelta necessaria del regista per far comprendere a tutti le emozioni che squassano le certezze del vecchio professore di musica. La scoperta dell’omosessualità, o meglio dell’amore, in un periodo storico moralmente soffocante, è vissuta da Gustav come un desiderio irreprimibile e ardente che solleva l’uomo ai vertici della bellezza artistica e, insieme, come un tabù insormontabile e inaccettabile.
La vicenda narrata da Luchino Visconti è come un insieme di memorie dall’infanzia, ottenute dalla perfetta e apparentemente impossibile fusione di dettagli storici e atmosfera onirica che ricorda vagamente quella di C’era una Volta in America di Sergio Leone. La musica è il fulcro del film (l’intera pellicola ha a malapena un centinaio di battute) e viene elogiata continuamente: Gustav è ispirato a Mahler, sia nel nome che nel mestiere, che nell’esperienza di vita (come la morte della figlia), di Mahler sono le musiche, assieme a quelle di Beethoven, Mussorgsky e Lehár. Il ritmo dell’opera è giocato in un vastissimo respiro, con inquadrature lunghe e campi lontanissimi. Le scenografie e i costumi, dettagliatissimi come solo Visconti e Scarfiotti potevano ricreare, donano all’insieme il profumo di un passato vissuto e sospeso nei ricordi.
Morte a Venezia è un capolavoro viscontiano di altissima qualità, l’analisi acuta e abbagliante della bellezza sublime che si trova solo nell’esile filo di sabbia che unisce le due metà di una clessidra.