Regia: Liliana Cavani
Sceneggiatura: Liliana Cavani, Roberta Mazzoni
Fotografia: Giuseppe Lanci, Ennio Guarnieri
Montaggio: Gabriella Cristiani
Musiche: Vangelis
Produzione: Karol Fil, Istituto Luce, Rai, Royal Film
Scenografia e Costumi: Danilo Donati
Cast: Mickey Rourke, Helena Bonham Carter, Paolo Bonacelli, Fabio Bussone, Riccardo De Torrebruna,
Paese: Italia – Germania 1989
Genere: Biografico, drammatico
Durata: 158’
Chi era Francesco d’Assisi. Ricostruzione mirata e dolcissima, intuitivamente femminile, della vita del santo più noto d’Italia, che con il suo esempio di condotta e la sua regola cambiò il corso della storia della Chiesa e l’approccio alla parola del Vangelo. Attraverso i ricordi dei suoi amici e primi seguaci, Rufino, Angelo, Leone, Bernardo e Chiara (Helena Bonham Carter), anche lei divenuta santa sulle orme del francescanesimo, si ripercorre in un lungo flashback la storia di un ragazzo comune, bello, ricco, unico e amatissimo figlio del padre Bernardone (Paolo Bonacelli), che aveva per lui una predilezione speciale e l’ambizione di farlo diventare ciò che lui, nonostante le ricchezze accumulate con il commercio non era mai riuscito ad essere, ossia un nobile, un conte. Il giovane Francesco (Mickey Rourke) è spensierato, volubile, elegante, circondato da donne ed amici; è ambizioso e sogna di diventare cavaliere, ma s’imbatte in un’esperienza che lo trasforma profondamente: dopo aver combattuto nella guerra di Perugia viene fatto prigioniero e rinchiuso nelle galere della città dove resta per almeno un anno. Da questo momento in poi qualcosa “esce fuori dal seminato” o semplicemente prende un’altra direzione: svogliato, distratto, non vuole, non ama, non cerca più nulla di quello cui prima ambiva. Le sue “stranezze” fanno il giro della città: legge continuamente un Vangelo in lingua volgare, non latina, incontra sempre più spesso i poveri della città, soprattutto i lebbrosi, scansati e disprezzati come esseri immondi, dissipa il patrimonio facendo carità: questa è la sua crisi, la paura, la coscienza, il capire e ancor più il non capire quale sia e dove si trovi il proprio posto nel mondo. Così, in pubblica udienza, davanti a consoli e vescovi riuniti per la volontà paterna di arginare le bizzarre frenesie dell’unico discendente, Francesco fa pubblica rinuncia a tutti gli averi familiari e dichiara di voler vivere come un mendicante, nudo ed indifeso sulle strade del mondo. Con la frase “Ho un altro padre” pronunciata spoglio e inerme davanti agli occhi del proprio padre naturale e di tutta l’assemblea riunita, Francesco apre un nuovo capitolo della sua vita, che raggiunge il massimo adempimento su un doppio fronte: la creazione del nuovo ordine di monaci per la collettività dei credenti, e il dono della santità per sé, Francesco, uomo di Dio, prima ancora che della Chiesa.
L’intera narrazione visiva si sviluppa come un racconto assolutamente lineare, non agiografico, né puramente biografico, che tralascia spesso concatenazioni logiche di eventi e punta su quell’intraducibile tramestio interno cui fa seguito un comportamento esterno irragionevole in apparenza, che spinge un uomo qualunque a voler altro e di più. L’opera è il remake del primo discusso lungometraggio diretto dalla Cavani del 1966 e trasmesso in Rai come film televisivo a puntate sulla figura di Francesco d’Assisi molto amata dalla regista: qui il soggetto è stato ripreso dopo oltre vent’anni e affidato alla nuova interpretazione di Mickey Rourke, la cui gioventù e bellezza rendono nella pellicola ancor più sofferente la sofferenza del personaggio, più difficile da accettare, da immaginare, eppure tempestivamente efficace ed evidente. Il suo sguardo è quello di un bambino innamorato del mondo, sorpreso della vita e della bellezza di ogni cosa, che più è piccola, più merita lo sforzo di essere amata, perché ha meritato l’amore di chi l’ha creata. Francesco dal dolcissimo sorriso aperto a tutti, che prende le umiliazioni e ne fa pregio, che trasforma le lacrime in battesimo di superiorità. Un leader dalla semplicità carismatica, che predica in lingua parlata, non certo latina, che s’inventa preghiere, che protegge come padre e madre uniti insieme le sue pecorelle di Dio, quegli amici che non hanno potuto fare a meno di seguirlo, lasciandosi tutto alle spalle, proprio come fecero gli apostoli alla chiamata di Gesù.
Nei vasti, splendidi panorami umbri, di natura sconfinata, selvaggia, viva e indomita, come appena fatta dalle mani di Dio, nei costumi e nelle perfette scenografie che parlano da sole, riprodotte con verosimiglianza assoluta dal maestro Danilo Donati (premiato nel 1989 con David di Donatello e Nastro d’argento) risalta la miseria, la solitudine, l’isolamento dell’uomo che si mette ai confini del mondo per poterlo comprendere meglio e cingerlo in un abbraccio d’amore puro: solo chi rinuncia a tutto è veramente libero poiché non ha più nulla da temere da nulla. Così Francesco arriva a parlare con ogni creatura, a scoprire negli uomini, negli animali, nella natura tutta quei fratelli e quelle sorelle che Dio ha impastato d’amore e messo nel mondo. La fede salva dalla solitudine tutti gli esseri, perché seppur emarginati, orfani, appestati o invisibili, in quanto figli di Dio sono da Lui amati in ogni momento.
Di fatto palpabile in tutta l’opera è la necessità di essere amato per quello che si è o che si scopre di essere: a Francesco questo tipo di compassione amorevole manca nel profondo; non la riceve dal proprio padre naturale, gli viene estorta e sconfessata nella sua essenzialità durante la guerra e la prigionia, perciò la ricerca spasmodicamente, tanto che tutto il film può definirsi una ricerca, sotterranea, strenua, stentata di un abbraccio mancato, di un amore se non più grande, diverso, di una condivisione profonda: è un figlio con le braccia costantemente protese verso un padre e probabilmente questo è l’aspetto più toccante ed universale di tutta la vicenda. Lo stesso miracolo delle stigmate giunge al culmine del buio: Francesco è avvilito, umiliato, confuso, pazzo di Dio e del suo silenzio, dopo un disperato e lacerante dialogo muto col cielo, allo stremo delle energie fisiche e mentali. Solo allora Dio gli parla, Deus mihi dixit, grida Francesco, e la sofferenza divina diventa umana, la croce storica è condivisa, come atto d’amore supremo del Padre dei padri verso quella sua creatura di Lui così innamorata e bisognosa. “L’amore aveva reso il suo corpo uguale a quello dell’amato”, dirà Chiara nel finale. Sta qui la santità.
Come Cristo, suo predecessore, anche il poverello d’Assisi è un rivoluzionario ante-litteram che combatte in modo disarmante e totale: dalla costante preghiera, all’istruzione dei suoi fedeli, che aumentano via via e che vedono in lui l’uomo nuovo, il Gesù reincarnato, fonte di verità e pace per chi non ne possiede; la paura, la coscienza, la fame, il freddo, l’elemosina, cercare e dare, dare e cercare, tutte tappe sofferte che portano alla scrittura della regola francescana e all’accettazione della stessa e dell’intera congregazione creatasi attorno alla sua esperienza mistica da parte dell’allora Papa, Innocenzo III. Una vittoria che scalfisce l’onnicomprensività della chiesa e di tutte le sue gerarchie, predica un modello di vita che prende alla lettera la scrittura evangelica e impone di stare in basso, confondersi con la polvere; privi di sfarzo, di potere, dell’ultima insindacabile parola su tutti i mali, dell’equità perpetrata a furor di dogma, della violenza su chi non si allinea e minaccia l’ unicità ecclesiastica: questi sono gli uomini di Dio secondo Francesco. E che nel 1226 ciò sia stato riconosciuto e ammesso rappresenta un doveroso precedente storico che deve ancora fare scuola.