Regia: Ingmar Bergman
Soggetto e Sceneggiatura: Ingmar Bergman
Fotografia: Sven Nykvist
Scenografia: P.A. Lundgren
Montaggio: Ulla Ryghe
Musiche: Erik Nordgren
Cast: Gunnar Björnstrand, Max Von Sydow, Gunnel Lindblom, Ingrid Thulin
Produzione: Allan Ekelund (Svezia, 1962)
Durata: 80’
Una Chiesa spoglia di tutti i suoi orpelli ornamentali; un villaggio sperduto della Svezia e le sue case isolate dal resto del mondo; una luce, la più naturale possibile; un sole coperto dal grigiore della fede e la neve a fare da manto a tutte le sbiadite certezze. Si presenta così, il film di Ingmar Bergman e del suo maestro della fotografia Sven Nykvist.
Ispirato alla figura del padre del regista, che fu un pastore protestante, Luci d’inverno (facente parte della trilogia sul silenzio di Dio, assieme a Come in uno specchio e Il silenzio), racconta la storia di Tomas, prete che ha appena perso l’adorata moglie e che attraversa uno stato di estremo disagio, spia di una profonda crisi interiore. La sua è una crisi intima, silenziosa, disadorna. Tante persone urgono un aiuto e gli si presentano disperate in cerca di soluzioni agli enigmi della solitudine, come la maestra del villaggio, Marta, che tenta di risvegliare la coscienza lacerata dell’uomo, spento dentro le mura della macilenta chiesa.
Ambientato in un nuvoloso giorno di Novembre, racchiuso in un arco temporale che va da mezzogiorno alle tre del pomeriggio e girato in 56 giorni, l’impietoso dramma da camera del regista svedese è di un realismo di rigore assoluto che riflette, attraverso la figura del pastore, il dilemma esistenziale sulla dispersione dei valori e dei sentimenti, soffocati dalle innumerevoli domande senza risposte dell’uomo. L’aggancio con la vita ultraterrena può avvenire soltanto con la profonda e veritiera fede che in Terra non ha appigli perché la sofferenza e la nullità degli ideali ha preso il sopravvento. Un fedele, in un dibattito con il pastore, in una significativa scena del film, gli ricorda che in fin dei conti lo stesso Gesù soffrì, ma ciò avvenne per sole 4 ore, mentre noi sembriamo condannati a gestire le sofferenze, perpetrate nel tempo, attraverso un’esistenza intera. Gesù dubitò della protezione del Santo Padre, nel momento in cui fu crocefisso, pur avendo portato la Parola nella Fede come esemplare di assoluta verità.
Bergman controlla la materia con un’aderenza alle psicologie ed ai tormenti dei personaggi, assolutamente straordinari e inconsueti, con una nota drammaturgica in più rispetto ai maestri Dreyer e Bresson (Bergman proveniva dal teatro che non ha mai abbandonato veramente). Nykvist costruì delle grandi cornici di legno rivestite di carta oleata, verso cui fece convogliare la luce, ottenendo un effetto di illuminazione indiretta che contribuì enormemente agli effetti realistici e magici della fotografia del film. La luce, in esterno, genera una pasta uniforme di toni che contrasta, in un pulviscolo di umori, le spente anime degli uomini che accompagnano la storia del film.
L’uomo e il suo intirizzito microcosmo interiore amplificano la distanza assoluta tra l’umana conoscenza e il divino. Il pastore Tomas conduce il rito per l’ennesima volta e la scelta stilistica del regista, nel modo in cui lo inquadra e lo sospende con la fine della “recita”, ne denuncia tutta la sua artificiosità meccanizzata e faziosa. La gente ascolta a breve distanza, nella consapevolezza di un abisso siderale che ormai li divide dall’altare della sapienza.