Titolo originario: Magdalene Sisters
Regia: Peter Mullan
Sceneggiatura: Peter Mullan
Fotografia: Nigel Willoughby
Musiche: Craig Armstrong
Montaggio: Colin Monie
Cast: Geraldine McEwan, Nora-Jane Noone, Anne-Marie Duff, Dorothy Duffy
Paese: Regno Unito 2002
Genere: Drammatico
Durata: 119’
La punizione come atto di morale sovraimposta e non di spontanea contrizione, che annienta e mortifica a prescindere dal ragionevole sentire, anzi volutamente calpestandolo; l’utilizzo della fede come vessillo di supposta giustizia che statuisce in suo nome il socialmente accettabile e l’eticamente pericoloso perpetrandone le radicali conseguenze prima nelle teste e poi nelle mani altrui. Di ciò, che purtroppo per noi non è storia datata, ma di tutti i giorni e di tutti i continenti, il regista Peter Mullan ci offre uno spaccato forse un po’ meno noto, che parla da sé e dice più di quanto descrive, lasciandoci entrare nei conventi “Magdalene”, vere e proprie “case di recupero” istituite agli inizi del XIX secolo e chiuse non più tardi di ieri – l’ultima nel 1996 – destinate ad accogliere donne di ogni età colpevoli di aver agito in modo compromettente, disdicevole o disonorevole rispetto al comune sentire: comportamenti contrari a Dio, quindi contrari alla morale, quindi contrari alla società. Un triplo veto concatenato che, nella cattolicissima Irlanda del 1964, luogo ed anno di ambientazione del film, decide implicitamente ed esplicitamente dell’avvenire di un individuo, tanto più se di sesso femminile, condannandolo all’espiazione morale e materiale tramite il lavoro e la preghiera forzati ed incessanti. Non a caso in questi istituti ci si ispira alla figura di Maria Maddalena, peccatrice per eccellenza, protettrice delle giovani che qui vengono “accolte”, archetipo della penitente che negando a se stessa ogni piacere della carne, compreso cibo e sonno e lavorando oltre la resistenza umana, pagò il suo debito alla giustizia dei cieli e poté morire nella grazia di Dio. Perché questo è l’obiettivo degli uomini perbene: avere tutte le carte in regola per oltrepassare i cancelli del Paradiso, pena la perdita di rispettabilità. Ossia ritrovarsi morti prima ancora di morire.
E’ questo un preambolo concettuale all’inferno che lo spettatore rivive attraverso le vicende di Margaret, Bernadette, Rose e Krispina, le ragazze protagoniste del film che intrecciano i loro sfortunati destini in queste carceri-lagher travestite da oasi di misericordia: svilite, estenuate, violentate, corrotte da chi avrebbe dovuto se non redimerle, almeno proteggerle. Se e quando lasceranno l’istituto, manterranno indelebili marchio e memoria di un pezzo di vita sbagliata per colpa non propria, ma imposta, secondo la malagiustizia morale che si arroga il diritto di togliere i peccati dal mondo, confinandoli in un altro, poco cristiano e altrettanto poco clemente.
Così nel fitto delle verdi campagne e nel chiuso dei conventi le ragazze ritratte da Mullan sono costrette ai lavori forzati: vengono impiegate nelle lavanderie industriali, la cui attività rende economicamente e permette alle suore che le amministrano di mantenere intatto il proprio stile di vita, costruito sulle spalle, la fatica e l’umiliazione di leve sempre nuove e sempre verdi di cui la collettività benpensante ha urgente bisogno di sbarazzarsi per togliersi d’imbarazzo, coprire la vergogna e dimenticare in fretta le mele marce o presunte tali. D’altronde, come afferma la stessa madre superiora, Sorella Bridget, l’attrice Geraldine McEwan, che fu tra l’altro suora di quest’ordine per un anno intero, “tutti gli uomini sono peccatori e quindi tutti gli uomini sono proni alle tentazioni. In un paese timorato di Dio se si vuole salvare gli uomini da se stessi bisogna rimuovere le tentazioni”; e dentro le Case Magdalene ciò avviene con ogni mezzo e fino in fondo.
Sette giorni su sette per dieci ore di lavoro al giorno non retribuito in cambio di poco vitto e squallido alloggio: niente vestiti, niente oggetti, niente parole, nessuna personalità, nessuna prospettiva, nessun contatto con il mondo esterno che le ha contaminate o che loro hanno contaminato a seconda dei punti di vista; solo silenzio, lavoro, preghiera, giornate tutte uguali e per chi non rispetta le regole punizioni fisiche, psicologiche, vessazioni, violenze al limite della tortura, indottrinamento su cosa è giusto e cosa no, cosa deve piacere e cosa no, cosa si deve volere e cosa no. Non importa l’eventuale crimine per cui la collettività rigetta la giovane: la sentenza è pregiudiziale, unanime e unanimemente direzionata: la violenza subita? E’ colpa sua; un figlio nato all’infuori del matrimonio? E’ colpa sua; la bellezza, la bruttezza, la debolezza di mente? Sempre e comunque colpa sua. Sua, di lei, della donna, perché di tutte le comunità umane, anche e soprattutto quella religiosa associa al male e all’errore in primis l’aggettivo femminile, poi, forse, al limite, quello maschile. Famiglie da dimenticare dall’oggi al domani; figli mai più abbracciati; morbidi capelli corvini tagliati via brutalmente; un padre nostro recitato in ginocchio di fronte alla madre superiora che ostacola la vita e la libertà tanto sognate; una porta lasciata incautamente aperta proprio su quella vita e su quella libertà che viste da vicino così da sogno non sono. E allora meglio il convento: perché quello che c’è dentro è l’amplificazione tragica di ciò che ci aspetta fuori, un brulicare di preconcetti che si mangiano via le menti e travestono da cittadina assennata una giungla di grettezze morali.
Il tutto è raccontato intelligentemente ed elegantemente, in modo forte, nudo, distante dall’ovvio e da tutta l’indulgenza che pure il tema può sollevare, senza moralismi né schieramenti netti, ma passando in rassegna solo fatti, probabilmente accaduti nella realtà: non a caso la pellicola, vincitrice nel 2002 del Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia, si ispira al documentario “Sex in a cold climate” di Steve Humpries che incentrava la sua indagine proprio sulle testimonianze dei soprusi commessi nelle Case Magdalene. Conseguenza ne è una riflessione onesta, acutamente scarna, inaccettabilmente contemporanea che ritrae uno dei tanti esempi di degenerazioni cui va storicamente incontro ogni società che costruisce le proprie regole intrecciando più o meno espressamente religione e vivere civile: mai invertire spirituale e temporale, mai sostituire religioso a laico pena gli integralismi più sanguinari, che correggono l’errore con altro errore, professano un riscatto di cui impediscono viziosamente la realizzazione e si chiudono al perdono nascondendo se stessi a se stessi in un’implosione regressiva che dimentica una primitiva regola della storia umana: l’individualità non è assiomatica, è una conquista.