di Sarah Kane
regia Pierpaolo Sepe
con Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli
5 ottobre 2016, Teatro India, Roma
Crave è la febbre convulsa della vita che non riesce a compiersi. Quarta opera teatrale della drammaturga inglese Sarah Kane, morta suicida a soli ventotto anni, è l’opera che segna una svolta nell’opinione della critica sull’autrice. Il testo, scritto nel 1998, venne pubblicato sotto lo pseudonimo di Marie Kelvedon con l’intenzione di azzerare qualsiasi pregiudizio sulla scrittrice, già criticata per il disgusto suscitato dalle opere pubblicate in precedenza. Crave, che consacra Sarah Kane come figura chiave del teatro contemporaneo, è la storia di quattro personaggi: A(author, abusator), B(boy), C(child), M(mother), allucinati dal proprio “non senso di vivere”. A è un uomo anziano che abusa di C, un adolescente che non sopporta di amarlo. M è una donna che non accetta di invecchiare, vorrebbe un figlio a qualunque costo da B, giovane ragazzo che la umilia. I versi dell’apocalisse che vengono detti alla fine sono come un’invocazione della morte, che già li possiede da vivi.
Pierpaolo Sepe crea uno spazio atto alla ricezione di questo testo magmatico e delirante, una prigione. Davanti allo spettatore si staglia un’alta rete metallica di separazione, dietro la quale si apre il palco, spazio bianco illuminato da luci fredde al neon più adatte ad una cella frigorifera che a delle vite. Due attori e due attrici sul fondo della scena iniziano lo spettacolo di spalle, ognuno raccolto davanti a una propria finestra/cella. Gli attori sfilano verso il pubblico con movimenti convulsi, spezzati, dolorosi; si aggrappano alla rete gridando, corrono, brancolano, le loro urla rimbombano metalliche come la rete, si sente un rumore di passi assordante. L’atmosfera claustrofobica di ribellione isterica si riversa nello sfogo monologico degli attori quasi fermi, aggrappati alla rete. Il ritmo delle parole è veloce, febbrile, ognuno parla per sé, a tratti sembrano parlare fra loro, rispondersi, ma poi di nuovo il contatto si perde, torna l’isolamento. Il fiotto di parole viene alternato da cadute di corpi nello spazio bianco, che atterrano ripetutamente come morti. Gli attori si spogliano dei loro abiti fino a restare nudi in pasto agli occhi del pubblico. Poi c’è un risalire, ognuno torna a parlare attaccato alla rete ancora più febbrile, vestito con gli indumenti di un altro, quasi a scambiarsi quest’unica identità lacerata che non lascia scampo e che non può che auspicarsi la morte imminente.
Un testo abissale, personale, che apre un’anima con la crudezza di una manovra chirurgica. Tuttavia, davanti al peso del materiale testuale, si ha l’impressione che la messa in scena ne sacrifichi l’aspetto più doloroso e vero. Le scelte sono basate su un ritmo esteriore, quasi coreografico, che non riesce a graffiare davvero chi da testimone sta a guardare.