E’ buio in sala. E’ buio nella caverna dove Creonte, tiranno di Tebe, ha lasciato Antigone a marcire per punirla della sfrontatezza con la quale ha trasgredito la sua legge. Antigone, seminuda, è avvinghiata a un pilone di metallo, parte di una complessa costruzione scenografica che simboleggia un complicato conflitto interiore, lo spazio insidioso, il corpo martoriato.
L’eroina si presenta: figlia di Edipo e di Giocasta e sorella di Ismene, Eteocle e Polinice. Nella guerra dei Sette contro Tebe, i due fratelli si trovano a combattere l’uno contro l’altro, dandosi morte reciproca. Antigone seppellisce Polinice, spinta dall’affetto fraterno e dall’umana pietà. Un atto di coraggio che le costerà fame, sete, angoscia e morte. La prima cosa, quando se ne va la luce, è il buio e la paura. L’atmosfera tetra diventa soffocante e una sorta di empatia, fino a diventare totale identificazione, scatta tra pubblico e attrice. Solo nel buio ci si rende conto della propria piccolezza, ridotti alla stregua di insetti e ratti, resi affamati da troppa solitudine.
Commovente è il dialogo drammatico con la madre imperfetta, eppur madre, alla quale ella si rivolge, quasi come a una divinità, per chiedere la grazia di rendere fertile il suo ventre. Antigone sposa guasta, madre secca, morente viva, schiava, animale. Donna incompiuta. Ma è proprio quest’impresa a restituire finalmente dignità alla sua vita, per troppo tempo solo attesa e desiderata, mai compiuta.
Antigone, in forma di dialogo, canto o supplica, si rivolge a vari personaggi della sua storia per ricostruire dolci memorie o per sferrare attacchi taglienti come lame. Non mancano riferimenti politici a un potere meschino che mira a rendere il popolo schiavo dell’obbedienza e privo di cervello, utilizzando la legge come uno strumento di distruzione.
Antigone cerca un’identità e, al termine del suo struggente percorso, solo apparentemente delirante, si scopre forte e risoluta. Non più prigioniera di un’esistenza malata di tristezza, la donna rinasce, proclamando la necessità di trovare il coraggio di fare, cambiare, ribaltare, rimediare. Il coraggio d’amare. La protagonista, prima sola, diventa ora voce di molti insepolti, divenendo paladina di una giustizia super legem. Seppellisce i morti per far resuscitare i vivi. Antigone si trasforma in un contenitore accogliente che ospita dentro di sé tutti i clandestini in cerca di terra, tutte le donne violentate, i figli maledetti, le vittime della guerra, i lavoratori sfruttati: tutti quelli che hanno diritto alla pace.
Con il suo corpo sinuoso e scattante si inerpica sulla struttura d’acciaio, la stringe, la sfrega, la attraversa, la raschia, se ne lascia inglobare. Cerca un cappio, ma è già risorta. Con le braccia aperte in un abbraccio di crocifissione proclama amore universale a una società che si vergogna perfino di pronunciare questo termine.
Sublime la performance di Ilaria Drago per le sue capacità interpretative, vocali e trasformiste che hanno permesso alla mitologia classica di compiere un viaggio millenario, trovando una perfetta collocazione nella contemporaneità.
ANTIGONE PIETAS – Polifonia elettronica per una resurrezione possibile
Di e con Ilaria Drago
Voce, live electronics Ilaria Drago
Musiche, sonorizzazioni Marco Guidi
Architettura di scena Mikulàš Rachlìk
Organizzazione Katia Caselli
Dal 24 al 29 gennaio 2012
Teatro Argot Studio – Roma