Vincenzo Pirrotta si è diplomato presso l’accademia dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, dopo essere stato allievo di Mimmo Cuticchio, uno dei più grandi eredi della tradizione di cuntisti siciliani. Dal 1990 collabora con il Teatro Greco di Siracusa, e nel 1995 ha vinto il Premio Giusto Monaco. È uno dei più grandi professionisti del teatro italiano, non solo in qualità di attore, ma anche di regista.
Cecilia Carponi: Tenendo conto della sua pluriennale esperienza, cosa ne pensa del clima culturale in cui gli artisti del teatro italiano si trovano a lavorare?
Vincenzo Pirrotta: Credo che in Italia ci sia un grande fermento, soprattutto nella scuola della nuova drammaturgia. Le idee che nascono dagli incontri tra artisti del settore, sono progetti che possono competere non solo con il panorama europeo, ma anche con quello mondiale, grazie all’eredità della cultura mediterranea. Il problema è altrove: fin quando la politica peserà nella vita del teatro italiano, non potrà delinearsi una cultura libera. I magri finanziamenti destinati alla cultura, sono troppo spesso in balia di spartizioni politiche.
C.C.: La cultura si configura come un’inesauribile risorsa per il superamento di un periodo di crisi; quali sono i percorsi che il mondo del teatro può intraprendere per stimolare la società?
V.P.: Ho sempre creduto che il teatro debba essere rivoluzionario. L’artista ha il compito di coinvolgere il pubblico fino a liberarne la coscienza. La rivoluzione di cui parlo non deve armarsi di forconi, ma deve passare attraverso la poesia.
C.C.: Lei ha preso parte a un’iniziativa portata avanti dal Teatro di Roma, l’Atelier dei 200; crede che un progetto del genere sia servito ad accrescere gli strumenti dello spettatore, o abbia anche cercato di approfondire il rapporto tra chi fa teatro, e chi lo fruisce?
V.P.: Il confronto tra artisti e spettatori è fondamentale: bisogna valicare il limite che c’è tra scena e platea, lo spettatore deve sentirsi chiamato in causa. L’esperienza dell’Atelier dei 200 è stata eccezionale: ha riportato il teatro a quando i cittadini prendevano parte alle rappresentazioni in maniera diretta. È un esperimento imprescindibile per far comprendere la fatica, la ricerca, la dedizione di chi fa un teatro rivoluzionario, e i risultati ottenuti sono stati nettamente superiori alle aspettative. Questo rafforza l’idea che un’unione di energie non somma, ma moltiplica: l’energia di 200 persone in scena ha costituito una forza rivoluzionaria. Ma ovviamente è altrettanto importante che i ruoli – artista e spettatore – non siano confusi. Chi sceglie di fare teatro, deve sudare, lavorare, approfondire ogni ora e per tutta la vita, al fine di creare opere d’arte; si tratta di una sorta di sacerdozio. Sicuramente ad alcuni dei partecipanti si sarà acceso il fuoco sacro!
C.C.: La nostra rivista si propone una linea editoriale costruttiva, e cerca di dare spazio ad artisti emergenti di alta qualità. Che suggerimenti ha in proposito?
V.P.: Gli artisti che si impegnano e lavorano duro devono avere la possibilità di confrontarsi con il pubblico, e di far conoscere la propria ricerca. Se in natura a vincere è la forza, nell’arte è la bellezza che deve trionfare; nonostante questo, tutti gli artisti validi devono avere il diritto di proporsi.
C.C.: Quali sono i progetti in cantiere per il futuro?
V.P.: Tra non molto inizieremo le prove di uno spettacolo che debutterà in estate a Taormina, con la regia di Andrea De Rosa. Invece, per quanto riguarda la mia attività di regista, nella prima parte della stagione sarò impegnato, in Italia e all’estero, con lo spettacolo Eumenidi, una mia riscrittura da Eschilo; nella seconda parte mi dedicherò a un nuovo testo dal titolo Prigioni, in collaborazione con il Teatro Stabile di Catania, che indagherà la reclusione non solo fisica, ma anche spirituale.