Blackbird è un fragile volatile macchiato per sempre dall’onta subita o una creatura rapace, del colore della disgrazia, che si avventa impietosamente sulla preda? Blackbird è, innanzitutto, il volo di ritorno da un percorso psicologico complesso al quale c’è urgenza di porre una fine; è una discesa in picchiata verso l’abisso accompagnata da una speranza di resurrezione. Blackbird è la ricostruzione di una violenza sessuale dai tratti ambigui e dai confini poco nitidi entro i quali non c’è spazio per giudizi, moralismi, rigidità di alcun tipo. Come sostiene il regista Lluís Pasqual, Blackbird è «il coraggio di non avere risposte».
Sì, perché oggigiorno l’impresa più ardua è tenere la bocca chiusa ed evitare di puntare il dito contro il prossimo, pronunciando un superbo j’accuse, sostenuto spesso da infondate illazioni.
Siamo chiamati solo a guardarli, i due protagonisti: un uomo e una giovane donna che, tramite scioccanti flashback, mettono insieme i tasselli di un rompicapo: la loro trascorsa relazione. Una storia d’amore? Forse sì, benché lei avesse dodici anni e lui molti di più. Però, tra passato e presente, si è frapposto un Tribunale, il carcere, gli assistenti sociali.
Dopo anni di silenzio, la protagonista Una riesce a rintracciare Ray, impiegato in uno squallido capannone industriale di periferia.
Il locale, grigio e sporco, rappresenta l’ambientazione giusta per sdoganare quel dramma impenetrabile. In questo spazio essenziale c’è immondizia ovunque. L’uomo rovista nervosamente nel secchione per gestirla, sistemarla, ordinarla. La scansa, ci si avvicina, la riprende, per poi allontanarla ancora. La spazzatura, la sua storia. Lei ostenta sicurezza, nonchalance, mentre l’uomo è imbarazzato a quella vista. Ha cambiato il suo nome in Peter, sperando, con esso, di modificare anche il suo destino. Avrebbe preferito seppellire quel passato misterioso, quello stupido errore che gli ha sconvolto l’esistenza e che lo segue, da sempre, come un’ombra minacciosa. Ha paura di una nuova intimità, di dover nuovamente addomesticare il mostro che è in lui. «Cavarti gli occhi e calpestarli; gli occhi che mi avevano guardata», grida la protagonista, ricordando il passaggio di una delle migliaia di lettere, mai spedite, scritte semplicemente per esorcizzare il suo odio.
Qual è l’origine di questo sentimento? La consapevolezza di aver subito un abuso o il dolore di essere stata abbandonata? In ogni caso, la sua rabbia è incontenibile e, soprattutto, indicibile. La scrittura non può nulla; la società non può nulla; loro stessi sono impotenti spettatori dell’assurdità dell’esistenza. E’ davvero tutto definito dai termini di legge? E se i due si fossero davvero amati, a modo loro? Se fossero stati pronti entrambi per quest’esperienza? Chi ha davvero provocato? Chi ha rovinato la vita all’altro? Ha più diritto Una di sapere o Ray di ricominciare la sua vita senza ulteriori interferenze?
Le domande si moltiplicano incessanti e quando si crede di essere vicini ad una risposta consolatoria e chiarificatrice – sì, si sono amati e si amano ancora! – l’autore interviene a cambiare le carte in tavola: l’apparizione improvvisa di una bambina che lo cerca – figlia della sua nuova compagna – fa gelare il sangue. Un oscuro presentimento. Il dilemma rimane irrisolto: un dubbio sconcertante resta a coronamento di tante emozioni. Crudelmente geniale.
Blackbird è la verità deformata dallo specchio dell’ambiguità.
BLACKBIRD
di David Harrower
Versione italiana Alessandra Serra
Regia Lluis Pasqual
con Massimo Popolizio, Anna Della Rosa, Silvia Altrui
30 novembre – 18 dicembre 2011, Teatro India, Roma