“Where there is pressure, there is folk dance”
Già dalle note del Dies irae di Giuseppe Verdi non è poi così difficile presagire il giorno del giudizio. Gli spettatori non fanno nemmeno in tempo ad elaborare la minaccia che si trovano improvvisamente catapultati nel bel mezzo di un concerto rock e trascinati involontariamente in danze sfrenate, tanto da sentirsi stretti nelle loro poltrone.
Il tutto è reso ancora più imponente da un’architettura a piramide, in ricordo di una gerarchia antica come il mondo. Alla base, cinque nicchie accolgono altrettante batterie che risvegliano anime e corpi, rimbombando nel petto e scandendo i tempi di guerra. Sono sormontate da quattro uomini che suonano chitarre elettriche impazzite, vibranti nel timpano come pugnali sferrati alla velocità della luce, e da un dittatore in maschera che impartisce ordini con voce infernale. Ẻ il suono che viene dall’ anima a comunicarci che siamo in guerra! Ed ecco entrare il vero protagonista, il popolo, così come lo ha voluto il coreografo israeliano Hofesh Shechter, che sale sul palco e si prende prepotentemente lo spazio che merita.
Dieci danzatori ed un attore fanno parte di una folla impazzita che corre in tutte le direzioni, resa anonima ed impersonale anche dall’ abbigliamento. Sembra quasi che i corpi, come presi da incontrollate convulsioni, a volte non seguano nemmeno un vero e proprio disegno ma che, lasciati al caso, diano forma all’ incurante esecuzione di un ritmo tribale. E’ un popolo primordiale che mette in scena tutto ciò che sente in maniera viscerale ed animalesca, così, senza filtri. E proprio come un bambino alla scoperta del mondo, questa massa asincrona trema di freddo, di paura, di dolore ma, poiché adulta, trema anche di piacere. Assistiamo, infatti, alla visione di una snodatissima anatomia – dall’ ultima vertebra più flessibile del capo fino alla punta del piede – che dà forma a riflessi psicologici di anime oppresse, desiderose di esorcizzare insieme un insopportabile clima orwelliano. Dall’alto verso il basso, ogni singola parte porta con sé l’evidenza di un corpo vessato dal sacrificio e dall’interpretazione: il capo chinato che si contorce per venir su, schiacciato da una forza invisibile; la potenza caricata nelle braccia e poi improvvisamente smorzata; mani che talvolta protestano in maniera convulsa, sopra la testa, e altre volte si protendono verso l’alto in segno di umiltà; passé deliranti che sfidano il ritmo e portano pesanti catene immaginarie; corpi buttati a terra a peso morto che creano patetiche girandole di disperazione. Questi multiespressivi ballerini tarantolati portano la bandiera di una reinventata danza folk collettiva, anche espressione di quell’originalità ed unicità del singolo individuo che qualunque forma politica autoritaria cerca di appianare. Bellissime le colonne sonore sapientemente composte dal coreografo stesso: rock e nello stesso tempo nostalgiche di un Oriente sofferente ed oppresso, che scatenano nello spettatore un senso di eccitazione e potenza, ricordandogli nello stesso tempo di non dare troppo per scontati valori preziosi come la libertà di espressione, di movimento, di comunicazione. Semplicemente, la libertà.
POLITICAL MOTHER
Eseguito da Hofesh Shechter Company
Danzatori Maëva Berthelot, Winifred Burnet-Smith, Chien-Ming Chang, Sam Coren, James Finnemore, Bruno Karim Guilloré, Yeji Kim, Philip Hulford, Erion Kruja, Sita Ostheimer, Hannah Shepherd,
Esecuzione musicale Yaron Engler, Joseph Ashwin, Joel Harries, Edward Hoare, Norman Jankowski, Vincenzo Lamagna, Andrew Maddick
Coreografia e musiche Hofesch Schechter
Collaborazione musicale Nell Catchpole, Yaron Engler
Design luci Lee Curran
Design costumi Merle Hensel
Design audio Tony Birch
Giovedì27 ottobre 2011, ore20:30,Auditorium Conciliazione di Roma
ROMAEUROPA FESTIVAL 2011