Prigione numero 5 – Festival del Cinema Kurdo

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Domenica 20 Gennaio, durante la quinta edizione del Festival del Cinema Kurdo, presso il Nuovo Cinema Aquila è stato proiettato Prigione numero 5, una raccolta di testimonianze di quei curdi, appartenenti al PKK, sopravvissuti al regime carcerario “rieducativo” turco.

Prigione numero 5, di Çayan Demirel, Turchia 2009, 97′

Sceneggiatura: Çayan Demirel

Suono: Ahmet Tirgil

Fotografia: Koray Cut

Produzione: Ayse çetinbaş

Prigione numero 5 è un documentario-verità sulle violenze compiute dai militari turchi ai danni dei detenuti curdi nel carcere di Diyarbakir, Turchia. Dopo il colpo di stato del 1980, la prigione divenne un centro di addestramento per trasformare i membri del PKK, il partito della resistenza curda, in perfetti cittadini turchi. Nel film i sopravvissuti alternano i loro racconti e si bloccano per asciugare le lacrime parlando dei compagni morti sotto le torture. Uomini e donne furono costretti a sopportare violenze indescrivibili nel nome del nazionalismo turco. Ad un detenuto furono cavati otto denti senza anestesia, altri furono bastonati a morte. Le condizioni igieniche erano terribili e nessuno poteva parlare in curdo. Molti rifiutarono questo annientamento della propria cultura madre e nel 1983 entrarono in sciopero della fame: si vede un giovane curdo che non riesce a stare in piedi dopo quaranta giorni di digiuno. Un signore piange al ricordo di un amico che per protesta si diede fuoco. Entrare nel carcere di Diyarbakir era come tagliare i ponti con la realtà civilizzata.

Alla fine della proiezione una ragazza racconta al microfono che nel film c’è anche una delle donne curde uccise a Parigi il 10 gennaio scorso. E si commuove. Quante volte, nel corso dei secoli, le minoranze hanno subito massacri fisici e morali nel nome di una bandiera di colore diverso? La linea di confine tra patriottismo e nazionalismo sembra essere sempre troppo sottile, nonostante l’amore per la propria patria non comprenda l’odio verso gli altri. La sensazione che trasmette Prigione numero 5 è la stessa che si ha guardando Diaz, don’t clean up this blood di Daniele Vicari: impotenza e rabbia, conseguenze di un potere perverso che perde il controllo pretendendo di schiacciare qualsiasi diversità incontri. Si dice che l’essere umano si abitui a qualsiasi cosa, inclusa evidentemente la trasformazione in carnefice attraverso il possesso di un’arma. E le reazioni delle vittime tendono ad essere spesso simili, tra loro nasce una solidarietà totalizzante. Colpisce molto il legame di fratellanza tra i sopravvissuti di Diyarbakir, che a quasi trent’anni di distanza non usano mai il termine “compagno di prigionia”, ma sempre la parola “amico”. Dai loro sguardi e dall’enfasi che mettono nel racconto sembrerebbero passati appena pochi giorni.

La scrittrice Zana Muhsen, nel suo romanzo Vendute scrive: «ho il dubbio privilegio di essere un ostaggio liberato, ma dentro il cuore si resta sempre ostaggi: il ricatto, la violenza, la privazione della libertà segnano per sempre un essere umano». Ancora una volta la storia ci insegna che ogni evento può ripetersi, che il contesto si modifica anche se il denominatore comune non cambia mai. Il carcere diventa spesso un mondo a parte, in cui la legalità viene estromessa -volutamente?-, nonostante sia lì che i controlli dovrebbero diventare esponenziali. Se poi sono omofobia ed intolleranza nazionalista a supervisionare la detenzione, allora il mix esplode con una potenza raccapricciante. Non bisognerebbe mai smettere di parlarne.

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Redazione

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