Provincia in scena: Armando Punzo, Mercuzio non vuole morire

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«A Roma si chiude un progetto che ha voluto creare in questi quattro anni una trama di legami e di emozioni dell’area metropolitana, che non si può riportare sulle carte geografiche, ma che rimane reale e vitale nelle abitudini e nelle relazioni tra le persone». Cecilia D’Elia Assessore alle politiche culturali della Provincia di Roma.

Mercuzio non vuole morire

La vera tragedia in Romeo e Giulietta

ideazione e regia: Armando Punzo
con gli attori della Compagnia della Fortezza: Aniello Arena, Abderrahim El Boustani, Francesco Felici, Alban Filipi, Gianluca Matera, Massimiliano Mazzoni, Rosario Saiello, Massimo Terracciano,Giuseppe Venuto, Edrisa Wadda
e con: Tiziana Colagrossi, Marco Mario Gino Eugenio Marzi, Franceso Nappi, David Pierella, Roberto Raspollini, Francesca Tisano
e la partecipazione dei giovanissimi: Amelia Brunetti, Gregorio Mariottini, Andrea Taddeus Punzo de Felice, Tommaso Vaja
voce: Anna Grazia Benassai
trombone: Fabiano Fiorenzani
musiche originali eseguite dal vivo: Andrea Salvadori
con la partecipazione straordinaria del contraltista: Maurizio Rippa
e gli interventi aerei di: Mattatoio Sospeso, Marco Mannucci e Alessandra Lanciotti
ideazione scene e ambientazione: Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo
costumi: Emanuela Dall’Aglio
musiche originali e sound design: Andrea Salvadori
aiuto regia: Laura Cleri
movimenti: Pascale Piscina
video: Lavinia Baroni
collaborazione alla drammaturgia: Alessandro Bandinelli, Giacomo Trinci, Lidia Riviello
bozzetti di scena: Silvia Bertoni
direzione allestimenti: Carlo Gattai, Fabio Giommarelli
disegno luci: Andrea Berselli
suono: Alessio Lombardi

5 e 6 marzo 2013 – Romaeuropa 2013, Teatro Palladium, Roma

Vai alla pagina di La provincia in scena sul sito di Romaeuropa

 

Chi è Mercuzio? Mercuzio è un luogo? Il luogo del teatro? O della vita? Se Mercuzio non muore che succede? Che mondo esce fuori?

Proviamo a indagare uno spettacolo, e con esso il messaggio poetico che Armando Punzo, di nuovo a Roma dopo anni di assenza, vuole trasmetterci insieme alla Compagnia della Fortezza di Volterra e alle collaborazioni artistiche romane.

È lo stesso Armando a duellare in scena all’apertura delle porte, mentre sul palco e in sala gli attori, metafisicamente vestiti da clown, da colonne, da muri e da angeli in frac, sistemano e muovono la scena composta da pannelli di foto che ricreano la piazza principale di Volterra, dove l’estate scorsa, oltre gli attori-detenuti anche gli abitanti della città e molti artisti, sono stati invitati a realizzare performance e interventi. Ammucchiati come quadri sui lati del palcoscenico che il regista ha trasformato in un enorme atelier, altri giganteschi pannelli, riproduzioni di foto, dipinti e pagine della vera tragedia in Romeo e Giulietta. Un mondo dove tutto è possibile. «Un’adolescenza infinita e immortale», come leggiamo sugli striscioni che irrompono in sala.

«Io sono l’ultimo poeta ve ne siete accorti?»: Mercuzio/Punzo parla e le sue parole sono la nuova carne sacrificata sulla croce dell’attuale mondo culturale putrefatto e volgare. Sciabolate in versi. «Gli artisti, i poeti, gli intellettuali, possono essere schiacciati, sacrificati come sotto un qualsiasi totalitarismo, anche in tempo di democrazia, e quest’ultima sa essere poco tenera alla stessa identica maniera».

Ticchettare ininterrotto di spade. Stuoli di bambine in tutù che con la loro innocenza ti dicono alle orecchie che «Mercuzio non vuole morire». Un’attrice vestita da botola del suggeritore, un papavero gigante che, stretto dalle mani di una ragazza, passeggia ovunque nel teatro, una cantante lirica che intona una romanza, mentre il duello continua, le famiglie incrociano le spade e le luci rosse innaffiano di sangue le poltrone del teatro. Un barocchismo scomposto, denso, vitale. Mercuzio non vuole morire è il grido di libertà di un’intera generazione teatrale e dunque umana. Un canto, una musica stridente a volte, duelli e poesia che non rivendica, testimonia. Testimonia la vitalità degli angoli, delle periferie, dei reietti e di chi sogna. Di chi sogna e vuole rendere il sogno realtà perché non è vero che i sogni parlano di niente. Non più. Non qui. Non ora.

«Montecchi e Capuleti sono dentro di noi», è con l’io che dobbiamo combattere. Mentre a terra le Giuliette adolescenti tengono un fiore in petto e le bambine le danzano intorno, due clown tentano di comporre un uomo di gesso senza riuscire a venire a capo, e davanti a uno specchio enorme Riccardo III si veste e si trucca. Innesti poetici di Omero, Calvino, Rostand, dello stesso Shakespeare. Mercuzio non deve morire: talmente ampia è la sua portata poetica, del suo essere il veggente, l’idea, la fanciullezza, la bizzarria, il viaggio, la storia e la leggerezza. Riposa, Mercuzio, mentre la città si muove, respira, ti cerca. Tebaldo ti è complice nel non farti morire: «che dovrebbe fare se non continuare a vivere, cantare, sognare, pregare e tremar tutta la vita?».

Punzo/Mercuzio è «pazzo d’amore per quello che potrebbe essere e non è». Ci accusa di vigliaccheria, ci ama e dichiara il suo testamento «che io non muoia mai». Amen. Se così non fosse, se Mercuzio morisse, finirebbe l’arte dei sogni: il gioco, la letteratura, la musica, il teatro, la danza e la creazione. Morirebbe Dio.

Il monologo finale del sogno è affidato a un bambino, all’Infanzia, accompagnata al piano dall’Enigmista, personaggio totemico della nuova umanità. Borges si sarebbe commosso. Tutti sul palco, a scrivere il finale rinascimentale, iconico e sacro di questa disperata preghiera d’immortalità.

Nel Paradiso di Punzo c’è posto per tutti, «tranne che per i poveri di spirito». Punto.

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Redazione

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