Il cinema Quattro Fontane ha ospitato, il 28 gennaio 2013, l’anteprima del nuovo film di Fabrizio Ferraro: Quatre nuits d’un étranger, ispirato al racconto Le notti bianche di F.Dostoevskij. Ambientato a Parigi, il film uscirà nelle sale il 14 febbraio. Tre sono i protagonisti: un uomo e una donna e un contatto, mancato, perduto, ritrovato. Con cartelli tratti da versi di Georg Trakl e la straordinaria suggestione del bianco e nero, il film rappresenta la continuazione inevitabile di Penultimo passaggio, precedente film di Ferraro del 2011.
Quatre Nuits d’un étranger/Quattro notti di uno straniero, di F. Ferraro, Ita 2013, 90′ b/n
Ispirato da Notti Bianchi di F. Dostoevskij
Cartelli tratti da alcuni versi di G. Trakl
in uscita nelle sale cinematografiche il 14 febbraio 2013
Immagine e Composizione: Fabrizio Ferraro
Suono: Klothé
Sound Mix: Tommaso Galati
Produzione: Boudu-Passepartout
Co-produzione: Rai Tre-Fuori Orario
Realizzazione: Boudu-Passepartout-BAROCAS sia
Distribuzione: BOUDU
Protagonisti: Marco Teti, Caterina Gueli Rojo
Quest’anno, a S.Valentino una storia d’amore “diversa” viene raccontata sul grande schermo. E’ la storia di uno straniero e di una donna che viene da lontano; di due vite che si incontrano, si intrecciano, si accompagnano. Poi si perdono, e chissà se si perdono sul serio o si ritrovano davvero. Perché tra le luci di una grande città è facile perdersi, ma basta tornare allo stesso angolo di una stessa strada per ritrovarsi. E la strada è quella, esattamente la stessa per quattro notti.
«Era una notte incantevole, una di quelle notti che succedono solo se si è giovani, gentile lettore»: è l’incipit di Dostoevskij a Le notti bianche, il racconto a cui Fabrizio Ferraro si ispira nella sua regia. E la macchina da presa, in questo caso, è un espediente eccezionale. Si spalanca come una palpebra, mettendo a fuoco la Senna, le vie parigine, il Caffè, l’ospedale di Saint Antoine, e poi cala qua e là tra le immagini, come per inumidirsi, per consentire una vista più accorta, vivida, appassionata. La palpebra si fa pesante se incontra troppo in fretta la luce, e allora l’antinomia di ombre crea l’equilibrio indispensabile affinché nulla venga perso di vista, alcun dettaglio sia messo a parte. Il gioco dei bianchi e dei neri è il trucco che Ferraro fa suo e di cui sfrutta ogni potenzialità: il protagonista è un sognatore, ha bisogno di scrutare ogni anfratto della realtà che lo circonda, e perciò scurisce ancora il suo sguardo: matita nera e mascara ispessiscono il divario col bianco dell’incarnato, creano come due buchi neri a livello delle cavità orbitali che tutto risucchiano e ogni emozione assorbono.
Quando all’angolo della strada arriva Lei, in quella prima notte, Lui la risucchia con gli occhi e lì per altre tre notti la aspetterà ancora, la seguirà ancora, senza mai bisogno di dire. Quando lui decide di affiancarla, entrambi sono spalle alla platea e sguardo rivolto al mondo: è la prima volta che li vediamo insieme. Gli spazi sono dilatati, i tempi non esistono, le parole non bastano né servono. Siamo sospesi nell’immobilità, la dimensione dei sognatori. E ci sorprendiamo a scoprire di non aver bisogno di altro. Fabrizio Ferraro ci dà tutto ciò di cui avremmo bisogno, ci offre semplicemente la realtà e gli infiniti, molteplici Io che in essa si specchiano così a lungo da finire col toccarsi.
La Senna continua a scorrere, le macchine a sfrecciare, i battelli ad attraversare la corrente, la città a brillare. Anche quando Loro non ci sono più. Quando con un abbraccio lei lo congeda per sempre. C’è tutta la sensazione della perdita in quell’abbraccio. Di una storia che abbiamo posseduto con lo sguardo e che alla fine ci viene portata via.
Ci si sente così, alla fine del film. Si esce dalla sala pensando che mai, neppure una volta, ci sia capitato di sedere su una panchina in città, a guardare. Guardare e basta. Condividendo con qualcuno accanto nient’altro che la stessa direzione dello sguardo. Senza incrociarsi, eppure avvertendo la reciproca presenza.
Sono fotogrammi di assoluto, istanti interminabili, distensioni, dilatazioni, astrazioni, le scene di Ferraro. Insomma, tutto quello che Dostoevskij aveva immaginato per il suo sognatore. E’ vero, un po’ l’impressione è che fallisca il tentativo dei due protagonisti di aiutarsi l’un l’altro ad aprirsi alla vita, eppure pare che si tirino un po’ più fuori dalle tenebre alla fine. E lo spettatore viene trascinato nella luce insieme a loro, beandosi semplicemente di ciò che ora i suoi occhi riescono vedere.
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