Questa cella è una prigione: quando il teatro entra in carcere – Incontro con Fabio Cavalli

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Domenica 9 dicembre 2012 si è tenuta, presso il Centro socio-culturale Garbatella grazie all’associazione culturale Altrevie, una lectio magistralis di Fabio Cavalli sul suo lavoro teatrale nei carceri italiani.

Questa cella è una prigione: quando il teatro entra in carcerelectio magistralis

Tenuta da: Fabio Cavalli

Luogo: Centro socio-culturale Garbatella – Roma, via Caffaro 10

Data: 9 dicembre 2012 ore 11

Organizzazione: Associazione culturale Altrevie

Fabio Cavalli ha diretto i detenuti di Rebibbia nella messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare. Il suo lavoro ha dato vita alla pellicola, girata in stile docu-drama, dei fratelli Taviani Cesare deve morire, che ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012 ed è stato selezionato  come candidato italiano all’Oscar per il miglior film straniero 2013.

L’incontro non si è tuttavia focalizzato unicamente sul film: il regista si è cimentato, con esiti brillanti, in un discorso che ha spaziato dal cinema alla politica, dalla società alla letteratura. Sono stati proiettati solo dodici minuti di preparazione degli attori al Giulio Cesare, preziosa testimonianza di un lavoro in fieri che non tiene dunque conto solo del prodotto finito, ma anche di quanto c’è alla base di esso. Inoltre il filmato assume pregnanza anche a livello laboratoriale, aspetto fondamentale del lavoro di Cavalli. È da qui che arriviamo al fulcro della sua attività: i laboratori teatrali all’interno del carcere, progetto portato avanti ormai da diversi anni e, seppur con difficoltà, approdato a risultati soddisfacenti. Cavalli ha infatti specificato la problematicità del primo approccio, frutto non solo delle resistenze dei detenuti e della loro iniziale incapacità di accettarlo come leader, ma anche della stessa struttura penitenziaria che non ne capiva il senso. E qual è il senso di una simile attività? Impostare il teatro come via di fuga dalla noia del carcere e come mezzo per l’attuazione di un programma di seconde opportunità; ma anche renderlo strumento di una più ampia politica culturale di contrasto della criminalità. In un contesto come quello carcerario, la cultura – come ha più volte sottolineato Cavalli – non ha ampia diffusione: mettere in scena un’opera come il Giulio Cesare diventa un modo per permetterne la conoscenza a persone che hanno scarso o nessun grado di istruzione.

L’impegno non è tuttavia totalizzante, poiché si lascia spazio anche alla commediola e al divertimento più puro: in quest’ottica bisogna leggere la rappresentazione di Napoli milionaria, la prima messa in scena del corpo teatrale dei detenuti, di questi attori di strada che tanto ricordano quelli del grande cinema neorealista italiano.

Inoltre, per chi ancora si ponesse domande circa l’utilità di un laboratorio teatrale in carcere, Cavalli sottolinea che la storia della letteratura italiana si è spesso configurata come storia di fuga, di esili di importanti letterati per motivi principalmente politici. Lampante è l’esempio dantesco. È in questo comune aspetto borderline della cultura del nostro paese che bisogna ricercare la convergenza tra i due mondi e le ragioni del teatro in carcere.

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