Mi annoio. Scrivo o non scrivo? E se scrivo, cosa scrivo?
Abbiamo un uomo, una penna, qualche foglio di carta, qualche donna che si manifesta nell’unico carattere che Landolfi sente di poterle attribuire: la nevrosi.
Discorsi sulla libertà, sui paesaggi, sulla noia di vivere e, di rimando, discorsi sullo scrivere.
Tra attrazione e repulsione alla vita, viene fuori il quasi-diario di Tommaso Landolfi: La Biere Du Pecheur, dove realtà e finzione si impongono all’Hypocrite lecteur, e all’autore stesso. Il personaggio, io-narrante che non vuole essere narratore, assoggettato alla vita più che soggetto della stessa, disposto a tutto “pur di non vivere”, ci parla di sé. Egli non crede ci sia molto da raccontare, e quel poco che c’è, è in lui confuso, arbitrario, non determinato; la determinazione difatti implica una scelta, una presa di posizione, sforzo che l’autore, nella sua disinteressata condanna alla scrittura, non sente di voler compiere. Landolfi scrive perché è annoiato, e quale cura migliore per la noia se non la manipolazione del reale ai fini della creazione dell’opera letteraria?
Landolfi, facendo di personaggi non delineati i punti chiave della narrazione, si riserva il diritto di manipolare e modellare i loro caratteri in funzione di quanto vuole raccontarci di sé. La realtà esterna e i personaggi che al suo interno si muovono come macchiette, esistono solo in veste di strumenti necessari all’esternazione del malessere esistenziale dell’autore, al suo modo di ammazzare il tempo per non essere, in realtà, ammazzato da questo.
L’autore salta da una narrazione a un’altra, facendosi centro del discorso, con passi camaleontici e incerti, attingendo al suo vissuto o spesso -ma non è dato sapere quando- alla sua traslazione. Vediamo Landolfi vittima del gioco d’azzardo, amante infelice, vittima -o carnefice?- scampata a tentati omicidi d’amore, scrittore che non sa cosa scrivere o che parole usare: è un emarginato, un giocatore incallito, un farabutto, un corrotto, è un uomo annoiato che fa della sua noia, della sua incapacità alla vita, un capolavoro.
La biere du pecheur, più bara del peccatore che birra del pescatore, è già nella sua prima accezione manifestazione di quanto Landolfi vuole raccontarci: il peccatore, il corrotto, l’inetto, non può costruirsi altro rifugio che non sia il suo sepolcro, egli è condannato alla sofferenza, all’insensatezza, all’incapacità; non vi è in lui -e nei suoi personaggi- né tracotanza, né curiosità, né affermazione.
Persino l’atto dello scrivere appare lento e faticoso, appesantito dalla sua materia letteraria, che è la vita. Tuttavia, il risultato finale contrasta con quanto detto fin’ora: un libro che mette le sue radici nella fatica, nella sofferenza e nell’inettitudine, diviene leggero, saldo nella sua precarietà. La biere -con il suo autore- acquista forza e risolutezza, facendo dell’incapacità il suo punto di forza.
Landolfi ha bisogno di consolarsi nella scrittura, invoca Dio al posto delle muse, e “senza forza né ali”, scrive questa specie di diario, cosciente di non poter essere compreso… Ma, forse, Baudelaire ci sarebbe riuscito:
«C’est l’Ennui! – L’oeil chargé d’un pleur involontaire,
il reve d’échafauds en fumant son houka.
Tu le connais, lecteur, ce monster délicat,
– Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!»
LA BIERE DU PECHEUR
di Tommaso Landolfi , Adelphi, Milano 1999.
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