L’ESORDIO DI TOMMASO LANDOLFI: IL SURREALE LINGUISTICO.
Come Alice nel paese delle meraviglie, il lettore di Tommaso Landolfi si trova inaspettatamente protagonista di un viaggio visionario, a tratti folle, nel mondo delirante dell’inconscio umano dove la concezione comune del linguaggio come strumento convenzionale per l’attribuzione di senso, viene perversamente distrutta. Una sperimentazione linguistica straordinaria che rende Landolfi uno dei più grandi artisti-innovatori del ‘900.
Come Alice, non si è subito coscienti del viaggio intrapreso. Siamo inizialmente persuasi di leggere racconti narrativi, introdotti da un titolo e aventi un’ambientazione, dei personaggi, dei vissuti la cui descrizione fredda e reale impressiona nel suo cogliere ogni sfumatura più profonda. Attraverso una prosa colta ed elegante, magistrale nell’uso maniacale delle parole -come nel caso delle pene d’amore di Maria Giuseppa morta per Giacomo in Maria Giuseppa e della straziante morte di un topo ed il suo folle funerale in Mani– prendono forma incubi, perversioni e paure umane al limite -valicato- con l’ossessione e la follia.
Ma la follia sembra pian piano personificarsi inghiottendo, nel suo delirio, ogni cosa: i personaggi, la storia, le singole parole, il lettore. Così all’improvviso, girando pagina, il senso collassa, le parole si perdono in un vortice babelico, annaspando nell’irrazionale e perdendo la logica e originaria collocazione: eppure… Sono sempre parole! Il lettore s’interroga, si affatica nel tentare di trovare per forza un senso, un filo conduttore che forse, distrattamente, ha perso. No, il senso non c’è più e, oramai consapevole di ciò, spaesato e inquietato si lascia trasportare nel turbinio del surreale dove le parole e le singole lettere, non avendo un significato in quanto legate logicamente all’interno di proposizioni, non sono più tasselli di un puzzle ma, sole, diventano simbolo, suono, sensazione. Esse evocano, come stargate verso altre dimensioni, immagini surreali e sensazioni immediatamente intuite, percepite, nella loro originaria purezza e nel loro essere fuori da ogni convenzione o stratificazione culturale che vincola ad una comprensione drammatica e diacronica nel tempo.
La narrativa di Landolfi non è la descrizione di cose senza senso, che presupporrebbe un uso esplicativo del linguaggio nella descrizione di un mondo immaginario con regole e categorie logiche interne e coerenti al sistema immaginato-ivo, ma la rappresentazione visiva del non-senso stesso mediante le parole. Non ci sono regole, né logica ma una materializzazione del surreale attraverso la fisicità delle parole: una sperimentazione linguistica che permette di vivere il linguaggio come sentimento. La comunicazione è data empaticamente nell’immediatezza delle singole parole la cui potenza evocativa non vuole solo raccontare e comunicare contenuti dati e definiti, cosicché il lettore, non più mero ricettore passivo, è stimolato a trascendere l’esplicito, godendo del sentimento linguistico, e a pensare per immagini, materializzando il visionario.
E se la comunicazione non fosse chiara e immediata, se il linguaggio, strumento di comunicazione per eccellenza, fosse evocativo, simbolico, irrazionale? Il contenuto di ciò che è scritto, pur se apparentemente ignoto nel suo essere privo di un senso immediato, avrebbe comunque un valore per chi lo legge?
Queste sono alcune delle domande implicite che Landolfi si/ci pone nel racconto che dà il titolo all’intera raccolta d’esordio: Dialogo dei massimi sistemi, pubblicata per la prima volta a Firenze nel marzo del 1937. L’ “amico Y” del protagonista racconta il suo incontro avvenuto con un presunto capitano inglese grande conoscitore di lingue orientali, il quale si propone di insegnargli il persiano. L’amico Y, per suffragare, a mò di esperimento, la sua teoria per la quale la creazione di un’opera d’arte è favorita dall’utilizzo di una lingua mal conosciuta dall’autore -in quanto, se non si conoscono le parole proprie a indicare oggetti e sentimenti, si è costretti a sostituirle con perifrasi e immagini, a completo vantaggio della creazione di un’opera d’arte-, decide di investire tempo e fatica nell’imparare la lingua persiana. Dopo più di un anno, però, l’amico Y si accorge per caso di essere stato ingannato: la lingua da lui appresa -mediante la quale aveva orgogliosamente portato a termine la stesura di tre poesie di cui bramava l’acclamazione popolare- non era né il persiano né nessun altra lingua esistente e universalmente riconosciuta. Dichiarato questo “un problema di estetica spaventosamente originale” i due protagonisti si recano dal “grande critico” per esporgli il problema. Nasce, quindi, un interessante dibattito intorno ai “massimi sistemi”, sul valore della lingua, delle immagini, dei suoni all’interno di un componimento poetico, sulla definizione stessa di “arte”e sul valore che il giudizio soggettivo e/o oggettivo può assumere in merito… Può, quindi, un’opera d’arte, per essere definita tale, prescindere da ogni tipo di convenzione ed essere unica misura a se stessa?
Dilemmi, questi, che investono per secoli il dibattito critico mondiale e l’animo stesso dell’autore che, in venti originalissime pagine, mediante straordinari strumenti verbali, sembra voler dichiarare il presupposto e l’essenza ultima della sua arte-sperimentale.
DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI
di Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 1996,
foto Giorgio De Chirico, Edipo e la sfinge, 1968, olio su tela, Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, Roma.
Nessun commento
Pingback: RETROSPETTIVE PAGINE DI CARTAPESTA | Pensieri di cartapesta