Giovancarlo Scarabozzo è uno studente universitario, al secondo anno della facoltà di Lettere, che si diletta nel passare le vacanze nel paesino di P. e a scrivere poesie. In attesa dell’arrivo dei suoi genitori egli trascorre le giornate insieme al suo cane da caccia. Qualche sera, svogliato e annoiato, passa a trovare gli zii. Proprio nella loro casa conosce Gurù, ragazza con ‹‹un volto pallido, dei capelli bruni, un seno abbagliante scoperto a mezzo››. Una fanciulla incantevole, ma con un particolare inquietante che Giovancarlo, colpito dal fascino della ragazza, non può far altro che riscontrare proprio nel momento in cui la squadra per la prima volta. Il ragazzo nota subito che la pulzella, piuttosto donna nonostante la giovane età e lontana discendente di una famiglia che aveva fatto fortune e sfortune del paese, non ha gambe umane, ma zampe caprine. Attratto da questo mistero di cui sembra accorgersi soltanto lui e avvezzo al fascino della ragazza, Giovancarlo, ardimentoso giovanotto alle prime armi, riesce, tramite alcuni semplici, quanto sinceri stratagemmi a conquistarla. Puella lunatica, a volte aggressiva, altre volte materna, Gurù si diletta, spesso, nell’intonare cantilenanti nenie.
I due passano le loro giornate estive a parlare, a osservare gli abitanti del posto, a fare qualche passeggiata, finché una sera, di luna crescente, o chissà, di plenilunio, Gurù, oramai sempre più indomabile all’interno delle mura domestiche, convince Giovancarlo a inoltrarsi lungo gli stretti e impervi sentieri della montagna. Profonda conoscitrice di quei posti, Gurù e l’innamorato si dirigono verso il Faggeto, raggiungono la Fossa di Fresa, s’inerpicano per il Vallone del Cerro Bianco, oltrepassano la pietra Zenna e arrivano, finalmente, a Sorvello. Qui Giovancarlo incontra Bernardo di Spenna, Sinforo il Rosso, Antonio lo Sportaro e Vincenzo di Squarcia; questi saranno, insieme alla capra mannara Gurù, i suoi compagni soltanto per una notte, lungo la quale, dalla metà del libro in cui ci troviamo, si arriverà a un passo dalla fine del romanzo…
Con La pietra lunare (1939), scopriamo lo stile desueto e sintatticamente perfetto di T. Landolfi, il quale, con un lessico forbito e, a primo impatto, gergale riesce a far compiere alla lingua italiana qualsiasi mirabolante gioco linguistico. Il romanzo è fratturato in due parti: nella prima si dà “lustro” all’insipida e ben scandita vita quotidiana, mentre nella seconda accadono eventi di una realtà che sembra essere temporalmente e spazialmente a sé stante. La pietra lunare si presenta così come un inaudito romanzo di formazione attraverso il quale Giovancarlo viene a conoscenza di un surreale, quanto incredibile, mondo lunare-notturno in cui s’incontrano figure fantasmatiche, ragazze caprine-mannare e ci si imbatte nello sguardo delle arcane ed enigmatiche Madri: ‹‹Di tutte e tre gli occhi assorti, argentati come canapa, guardavano alla luna››.
Nell’esperienza lunare, in cui si ergono pericolose forze occulte, troviamo creature diafane e sfrenate avvezze ai piaceri meno morigerati. La puella caprina Gurù, ‹‹mistagoga di una iniziazione erotica››, medium tra il mondo solare e quello notturno, amante della quotidianità, quanto della frenesia orgiastica, conduce il protagonista in mezzo alle profonde tenebre di matrice popolana e fantastica. L’universo dell’inconscio, dell’onirico e dell’irreale nel quale si addentra Giovancarlo, futuro intellettuale di città è, in fondo, nello stesso istante, per noi lettori, terribile incubo ed esaltante potenza compositiva di cui Landolfi è massima e non prosaica espressione creativa.
LA PIETRA LUNARE
di Tommaso Landolfi, Adelphi, Milano 1995.
foto dipinto di Marc Chagall, Il grande sole, 1958
2 commenti
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Il migliore e più tragicamente misconosciuto scrittore italiano del 900! Ci dovrebbero essere strade piazze, libri filmati, film su Tommaso Landolfi, invece tutti conosco Moravia ma quasi nessuno conosce Landolfi!