Un comune gecko? «Una sorta di coccodrillo in miniatura che frequenta e percorre serpeggiando le vecchie muraglie». Uno di quegli animali viscidi che penetra ovunque, s’infiltra nelle vesti, solletica incutendo timore, si appiccica volenteroso sul volto del povero Landolfi. Il Tommaso Landolfi uomo, nei suoi deliri linguistico mentali, non sopporta i gecki ma non riesce a combatterli, gli condizionano l’esistenza e gli stigmatizzano le relazioni più intime. L’oscurità gli occlude la vista e la luce, nascosta nelle piaghe dell’esistenza stessa, è offuscata dal dolore della solitudine e dell’inspiegabile. Perché è di questo che i suoi racconti trattano, e qui in questo caso specifico, ne Le labrene, il nero, il barocco e il grottesco, regnano incontrastati sulle cose e sulle persone. La tensione e l’ombrosità del primo racconto, che prende il titolo della raccolta, si stemperano nel grottesco da piccola-grande commedia degli equivoci del resto: da Encarte a Perbellione, da Uxoricidio a Pellegrinaggio, da Il crittogramma a Conferenza personalfilologicodrammatica con implicazioni; l’universo fosco di Landolfi si regge su logiche non pervenute, logiche-illogiche, situazioni ordinarie condotte agli estremi della ragione e poi della follia, la quale irrompe autoritaria e irrazionale come gli umori contrastanti di figurazioni di morti e di furori di vita, accompagnanti praticamente tutti i racconti.
Ma è con Le labrene, il titolo più significativo, che il disegno irrazionale di lucido delirio emotivo, compie la sua traiettoria più impervia e fagocitante: la prefigurazione di una morte imminente, quella della morte dello spirito e della comprensione. La comprensione nei riguardi dell’irriguardevole quotidiano espletarsi delle pratiche coniugali-familiari. Il terrore per l’irrazionale procrearsi della natura e dell’animale -l’animale labrena e l’animale-uomo- prefigura un futuro inconscio, destinato a divenire conscio nella logica concatenazione degli eventi, cupi nella mente dello scrittore-uomo, e forieri di novità in quella dell’uomo tramortito dagli stessi. Quando il perno centrale del racconto diviene l’enigma, irresolutamente sempre dietro alle verità, come ne Il crittogramma, allora il marchio-landolfiano ammicca minuziosamente a quello di alcuni racconti di Edgar Allan Poe. Mentre gli altri racconti -eccezion fatta per Encarte e Pellegrinaggio, costruito sulle fondamenta della famigerata “arte di arrangiarsi” l’uno, e definito su quella poetica e metafisica de-costruttiva della realtà delle cose l’altro- rappresentano meno la filosofia dell’autore, molto influenzata da quella dello scrittore francese Barbey D’Aurevilly e solo in parte da quella del nazionale Dino Buzzati, molto più legato al favolistico. Probabilmente, Le labrene, allinea il fantastico, e il sentimento del fantastico, sulla linea del grigio domestico; quella che appesantisce di più le psicologie e le logiche del controllo delle proprie pulsioni, pur sempre primordiali, di fronte alle avversità dei sentimenti del contrario.
LE LABRENE
di Tommaso Landolfi, Adelphi edizioni, Milano 1994.