Retrospettiva Landolfi: VIOLA DI MORTE

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Pagine bianche accolgono frasi desuete e angoscianti, che pulsano inquiete nell’animo di chi legge: Landolfi raccoglie in Viola di Morte un’ambizione poetica dirompente, portata avanti per anni, e messa a tacere con difficoltà. Una prima lettura delle sue poesie, infatti, ci sconvolge, ci fagocita nel non-senso, ci disorienta… Ma allo stesso tempo, grazie all’intelligente utilizzo di rime e figure retoriche, di versi spezzati, sospesi, il nostro io è sollecitato, portato a riflettere. Il poetare di Landolfi non è un verseggiare disimpegnato, giocoso, semplice: l’eterna noia, constatata nella fermezza del verso, è tesa a rendere il lettore consapevole soggetto del suo perenne e monotono vivere. Così noi stessi, diventiamo l’alter-ego dello stesso poeta: il presente, che è attesa di morte e liberazione dalla vita, è una tensione nevrotica che «ci governa e ci minaccia», dove noi «gli schiavi di noi stessi schiavi, chiniamo i capi ignavi al sole della sua materna faccia». L’uomo è messo a nudo, la sua umanità calpestata, distrutta; con una sensibile musicalità, donata dal fluido fraseggiare, Landolfi penetra nell’intima condizione umana, strattonandola, offendendola: non è la morte che deve angosciarci, intristirci, o interrogarci sul senso del nostro essere…

E’ la vita, che costringendo al dramma della fragilità, dell’inquietudine, va intesa come sollecitazione alla morte. La razionalità, la freddezza con cui il poeta indaga e viviseziona l’emotività, insieme alla sensibilità dell’uomo, si coniuga all’evanescente bellezza e all’armonia del suo poetare: aggettivi di afflato universale, immagini oniriche ricche e dettagliate, sono evocati al fine di rappresentare nella loro eternità la straziante situazione in cui tutti siamo fagocitati.

La lontananza dalla persona cara, il nostalgico rimpianto per un amore mai avuto, la malinconia del male di vivere, l’inganno dell’istante che spezza l’universale silenzio e ci imprigiona ad essere mortali: Landolfi non inneggia alla vita, ma, in modo tenero e straziante, all’odio che prova nei confronti del vivere. Varie sono le immagini con cui celebra la disfatta della vita: oltre alla natura matrigna di leopardiana memoria, Landolfi scopre “una sorte insensata e maledetta” che condanna alla truce realtà, un concetto di amore che non argina la morte ma che tutto confusamente sommerge, “un’angoscia fatta pane” che alimenta l’esistenza. La quotidiana incertezza sul futuro, l’amaro disincanto sul presente, il passato ormai accaduto per cui l’uomo anela alla speranza dell’ “ebbi”, tutto vibra nello stile semplice ed icastico di Landolfi: è la consapevolezza di un’identità di tedio, sofferenza e tremore.

L’unica salvezza? Vivere dell’istante, non per l’incombenza della morte, ma perché «questa terra ormai non trovo conforto». La riflessività del poeta è cupa e rassegnata, e svela la crudezza dell’essere vivi nel mondo tramite il linguaggio incantevole del verso, che pur divenendo il luogo del disinganno, della provocazione, perversamente e provocatoriamente racconta l’umanità tutta intera, permettendo di riconoscerci in quella stessa inquietudine. L’innocenza della poesia è lo strumento che Landolfi dà al lettore per raccontarsi come uomo, in una sorta di diario biografico, il cui linguaggio è quello non codificabile del mondo interiore; tolta la maschera, ogni io abita un limbo dove tutto è malignamente fermo, nell’attesa trepidante di una morte che si consoli e si concili con il Tutto, rispetto all’insensatezza, al livore celebrato nella quotidianità. L’unica autentica vita è il sentire più intimistico dell’uomo. E Landolfi così celebra la nostra verità quiescente: «Nulla significare, nulla dire: / Tale forse il supremo atto d’amore».

VIOLA DI MORTE

 di Tommaso Landolfi, Adelphi Edizioni, Milano 2011.

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Autore

Valentina Cucchiaroni

Caporedattrice della sezione Arte di Nucleo Artzine, appassionata della scena artistica contemporanea, ha studiato filosofia teoretica alla Sapienza di Roma.

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