drammaturgia ricci/forte
regia Stefano Ricci
con Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Marco Angelilli, Claudia Salvatore, Cinzia Brugnola, Chiara Casali, Ramona Genna, Blanche Konrad, Piersten Leirom, Mattia Mele, Simon Waldvogel, Desiree Giorgetti
movimenti Marco Angelilli
produzione ricci/forte, in coproduzione con Romaeuropa Festival, CSS Teatro stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies – Dro 21 Maggio 2015, Teatro India, Roma
“Darò loro il permesso di buttar via la loro dignità come un vestito inutile” (Lautréamont).
Luci al neon donano l’impressione di trovarsi di fronte a un set pubblicitario. Oggetti di consumo diventano l’indice e la traccia di una persona, come dei vestiti usa e getta. Buste della spesa, fucili giocattolo, costumi e maschere. Nella concrezione di clownerie postmoderna e accumulo feticista di cose insignificanti, eppure quasi più affettuose delle persone, si presentano i sedici performer di IMITATION OF DEATH di ricci/forte, pronti a rivoltare lo spazio scenico e ad offrirsi agli spettatori in un’impietosa radiografia di sé, dei propri rapporti sessuali, dei propri lutti, delle proprie illusioni.Al “funerale delle aspettative” si assiste con rispetto, per la fatica delle “cavie” consapevoli del loro mostrarsi totalmente nude come Cristi contemporanei, belli e così goffi sulle loro zeppe zebrate, inizialmente indossate come trampoli o pròtesi, poi gettate via. La ripetizione della sequenza di gesti propria allo svestirsi e al rivestirsi, una delle azioni sceniche più sottolineate, simboleggia l’esposizione al pubblico sguardo di un habitus strettamente privato; così come il segnare con un gessetto su una grande lavagna la propria altezza corrispondente al momento della propria esistenza di cui si condivide un ricordo o un trauma costituisce un’operazione di biologia esistenziale che ricorda molto gli esperimenti della Pennini del Collettivo Cinetico con i suoi adolescenti in <age> (2014) e lo spettacolo O O O O O O O O del coreografo Giulio d’Anna, dove ritroviamo le esperienze dei performers come materiale drammaturgico.
Il disagio post-adolescenziale della classe borghese è invece il materiale prediletto da Chuck Palahniuk, alle cui opere si ispira IMITATION OF DEATH; un requiem dell’idealismo, un andare contro la società nella sua totalizzante e fagocitante normalità imposta e non gratificante. Soffocante, traumatica come la modella di Invisible Monsters che si spara un colpo di fucile per non essere più bella e quindi corruttibile e “in commercio”, divenendo così un freak, unica possibilità d’uscita dal recinto sociale.
Come nei romanzi di Palahniuk la rappresentazione è fitta di elementi stranianti: una demenziale canzone di Laura Pausini risuona attraverso la voce di un buffo cigno, una bellissima ragazza dai capelli punk spara agli altri performers che circolano come animali a quattro zampe; si balla un lento su Untitled dei Muse tirandosi capezzoli e prepuzi, ci si dona senza limiti e ci si offre senza dignità, perché non ha portato mai a nulla questa presupposta armatura borghese, inutile nel suo essere una difesa dietro alla quale si nasconde comunque la carne e con essa un corpo pulsante. Ed è il corpo nel suo essere autentico e senza sovrastrutture l’ultimo avamposto a cui si aggrappano i performers nel ricordo delle loro perdite, delle loro rivincite verso chi si è dimenticato di loro.
Nel mezzo dello spettacolo viene interpellato il pubblico che resta silente alla sua chiamata in campo. Perché nonostante il nastro stradale del don’t trespass sia stato tagliato, la distanza tra performers e spettatori rimane. Il patto osceno che si stringe al principio del voyeuristico testimoniare alla radiografia esistenziale, eseguita a suon di pennarello e scrittura corporea abbinata a domande con ciniche e brutali risposte, resta un patto scenico che non si smuove al di fuori del perimetro della rappresentazione. Ma nonostante questa distanza irrecuperabile, che rende patinato un esperimento troppo umano fino ad essere disumano, assistervi ha funzione quasi spirituale: non si prende il posto del sacerdote nell’uffizio, ma si espiano i propri peccati, in questo caso le proprie prostituzioni e paure, le proprie rivolte fallimentari contro l’assorbimento snervante del divismo, basato sul plauso di perfetti sconosciuti che nessuno ama.
La regia di ricci/forte si costituisce come una presa di posizione decisa e ferma, diretta verso obiettivi sempre più precisi, come in D.A.R.L.I.N.G (2014) più vicino alla Performance art; tale consapevolezza li conferma uno dei pochissimi gruppi in Italia che riesce ad uscire dalla nicchia e ad incontrare un ampio pubblico, una vera e propria comunità che si riconosce in questa estetica postmoderna, corroborata da un’iconografia di riferimento estremamente vasta, spaziante dal pop ai dipinti religiosi, in un assemblaggio di citazioni figurative e densità drammatica.