Drapchi è stato proiettato nella sezione Feature Film Competition del Rome Independent Film Festival. E’ il primo lungometraggio del giovane regista Arvind Iyer e riesce a coniugare perfettamente la denuncia politica con l’introspezione tipica del Buddhismo tibetano.
Drapchi, di A. Iyer, India 2013, 85′
Sceneggiatura: Pooja Ladha Surti
Fotografia: Trevot Tweeten
Montaggio: Harshal Thakur
Scenografia: Gyako Thab, Trevor Tweeten
Costumi: Namgyal Lhamo
Musica: Namgyal Lhamo, Sarosh, Izedyar, Arnav Srivastav
Produttore: Rajesh Mehta
Produzione: Iceberg Nine Films
Interpreti: Namgyal Lhamo, Joseph Rezwin, Chris Constantinou
Al termine di Drapchi è probabile che ci si asciughi una lacrima. Questo lungometraggio sa mordere lo spettatore fin dalla prima sequenza, quando la voce di uomo entra in campo dicendo: «Ho una storia sul Tibet». Tecnicamente, si nota una certa originalità nel limitare i dialoghi, preferendo immagini potentissime su cui si sovrappongono le voci narranti, morbide e suadenti. Come due barattoli di vernice che si scontrano, portando ad un’unione avvolgente di colori diversi, qui le musiche esotiche che dominano l’opera si rovesciano su panorami mozzafiato, fasciandoli in un’armonia grandiosa. Drapchi è un graffiante caleidoscopio di riflessi e suoni, nel quale si racconta la storia di Yiga Gyalnang, cantante lirica rinchiusa nel carcere di Drapchi, in Tibet, per aver inneggiato alla libertà di espressione. Attraverso l’alternarsi di due voci, quella della protagonista ed una maschile, si ripercorre una rinascita interiore i cui toni sono sempre equilibrati. L’incubo vissuto da Yiga viene reso con un’inclinazione fortemente spirituale che coincide con il karma tipico del popolo tibetano. Così, attraverso i suoi occhi, conosciamo la devota spiritualità di un intero paese.
Sorprendente la placidità con cui Arvind Iyer fa passare le torture subite da questa piccola donna sorridente, che una notte riesce a fuggire iniziando un cammino inarrestabile che la porta fino a Katmandu. Lì incontra un rocker occidentale, uno spirito libero che ascolta la sua storia e rimane affascinato da questa donna speciale, che perdona ma non dimentica, e che vuole ricominciare a cantare. Si narra di oltre cinquecento prigionieri politici detenuti dal governo cinese in condizioni inumane. Yiga non è un fiume in piena; nel raccontare il suo dolore non è teatrale. Lei va avanti e pensa al futuro, e quando le dicono che non è al sicuro e deve volare in Occidente, lo fa con dignità.
La colonna sonora dilaga, e noi voliamo con lei, mentre la sua voce incrocia quella del giovane rocker che la cerca sotto la pioggia senza più trovarla. Quello di Yiga è il pellegrinaggio di chi è sopravvissuto gridando in silenzio, risparmiando l’ardore per il dopo. La ritroviamo cantante in giro per il mondo. E poi eccola lì, in un caffè parigino, mentre parla con un giornalista del suo Paese, e di colpo adesso è diventata una tigre. Le viene chiesto se ha ancora speranza, e lei risponde senza tradire l’equanime attitudine della sua terra: in Tibet si crede che dalla tragedia possa nascere la forza. Saranno gli spiriti saggi a determinare l’ora della libertà: quando loro vorranno, il Tibet sarà libero. Con le fiamme nello sguardo, Yiga si asciuga gli occhi.
Tanti applausi per l’intensa interpretazione della protagonista, la cantante Namgyal Lhamo, presente in sala assieme a diversi membri della comunità tibetana. Con voce mite ed un sorriso benevolo, implora una maggiore attenzione per la questione trattata. In Drapchi c’è denuncia politica ma, oltre la protesta, viene trasmessa una forza motivazionale che gli straordinari scenari consolidano. L’unione degli elementi è così ben strutturata che la violenza subita diventa una componente di disturbo ancora più forte delle lacrime e delle grida che Yiga non ci offre. Una rinascita tanto forte da riuscire a sorgere nello stesso momento in cui ancora si soffre.