L’ultimo film presentato in concorso al Riff, Rome Independent Film Festival, nella sezione National Film Feature Competition è Lost in Laos di Alessandro Zunino, una pellicola che s’insinua tra la verità e la finzione cinematografica, tra il mockumentary e il documentario.
Articolo scritto insieme ad Andrea Palazzi.
Lost in Laos, di Alessandro Zunino, Ita 2012, 113’
Sceneggiatura, Fotografia, Montaggio: Alessandro Zunino
Scenografia: Alessandro Zunino, Laura Malavolta, Michele Vindimian
Musica: Stefano Cabrera
Produttore: Alessandro Zunino
Produzione: BadApple Communication
Interpreti: Daniela Camera (Daniela), Daniele Pitari (Paolo), Carla Signoris, Dario Vergassola
LostLaos è un sito al quale ci s’iscrive prima di raggiungere Vang Vieng, in Laos appunto.
Ci s’iscrive al sito per condividere con altre persone la propria esperienza in quei luoghi, per incontrarsi e vivere una vacanza comune. Parliamo di turismo di massa, di un Laos che sembra un’Ibiza a cui si aggiungono kayak, rafting e tubing.
I due protagonisti del lungometraggio di Alessandro Zunino hanno intenzione di vivere proprio un’esperienza del genere, per divertirsi, per staccare dalla loro routine senza abbandonare però l’occidentalismo che li contraddistingue. Non è lo spirito di viaggio del Grandtour, ma è pur sempre un viaggio, da sballo.
Realizzato come un mockumentary questo film racconta di una perdita di equilibrio, per trovarne necessariamente un altro, e mette lo spettatore nella condizione di non capir bene dove finisca la finzione ed inizi la realtà, «quel che è vero, tanto vero, non è, e ciò che è falso non è per forza una bugia»: una sorta di teoria sulla verità e la menzogna in senso estetico cinematografico che va oltre il concetto di verità assoluta. Una pellicola però non si può mettere in discussione, bisogna sapersi fidare.
Come ci si fida delle proprie percezioni, delle proprie reazioni, anche rispetto all’alcol e alle droghe. Accade così che Daniela e Paolo perdano la cognizione del tempo, si abbandonino sul loro tub, e si risveglino in un altro Laos, quello vero, fatto di foreste e villaggi, quello con cui bisogna necessariamente confrontarsi. Ed è lì che inizia il vero viaggio, ognuno sul proprio percorso. Ciò che colpisce è, infatti, proprio la differenza iniziale tra Paolo e Daniela; sembra non esserci alcuna empatia tra loro, nonostante siano fidanzati. Il loro cammino è tutto da costruire nel confronto, impossibile da rifiutare, con questa nuova realtà. La telecamera portatile di Daniela con cui la ragazza vuole voyeuristicamente filmare tutto, per ricordare anche ciò che non ha visto, comincia a essere uno strumento saltuario, un occhio ballerino che squarcia il nuovo presente.
Colpisce una frase detta da Paolo durante una fase di tubing: «Sembra Apocalypse Now, Kurtz stiamo arrivando!» Paradossalmente quella frase, del tutto fuori contesto, assume le sembianze della previsione. Il paradiso artificiale di Vang Vieng si trasforma prima in inferno e poi in conoscenza ekstatica, così come la natura, prima giocosa, che strizza l’occhio, diviene poi maledettamente severa, e infine amica riflessiva. Lost in Laos è un film che si divide in due parti andando così oltre l’aspetto drammatico della perdita di se stessi. Il registro comico di Dario Vergassola, padre di Daniela nel film, intervalla il racconto laotiano e crea rilassatezza nello spettatore.
Alle musiche quasi anestetizzanti della prima parte del film si sostituisce un ritmo lento che ha l’intenzione di mostrarci il lato riflessivo, tutto da edificare, dei due personaggi.
Se il viaggio perfetto nelle parole di Daniela è circolare, quello dei due protagonisti si può definire come una scalata verso una nuova coscienza prima assente e ora, forse, presente.