Data la levatura dell’autore a cui è ispirata la performance The dead di Città di Ebla al Palladium, non possiamo che inoltrarci in una riflessione che approfondisca la recensione.
The Dead
Ideazione, regia e luci: Claudio Angelini
Con: Valentina Bravetti e Luca di Filippo
Fotografie in tempo reale: Luca di Filippo
Composizione sonora e manipolazione del suono: Franco Naddei
Cura degli allestimenti e costumi: Elisa Gandini
Collaborazione drammaturgica: Riccardo Fazi
Disegni in scena: Jacopo Flamigni
Direzione tecnica: Luca Giovagnoli
Aiuto tecnico: Stefan Schweitzer, Nicola Mancini
Collaborazione tecnica agli allestimenti: Luca Brinchi
Sartoria: Liana Gervasi
Una produzione: Città di Ebla, Romaeuropa Festival 2012, Teatro Diego Fabbri, Comune di Forlì
Con il sostegno di: Regione Emilia Romagna, Provincia di Forlì-Cesena
23-24 novembre 2012 – Teatro Palladium, Roma
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Buio. I neri del sipario inquadrano uno schermo da cinema sul quale, pianissimo, fa capolino la sagoma accennata di una donna. Piccoli rumori ambientali live ed effetti pioggia, su dolci melodie pop, accompagnano lo sviluppo dell’animazione.
Tazzine da caffè, tavolini con posacenere, poltroncine borghesi, lettere vergate a mano, lampade da terra, una vecchia valigia e l’interno di una cassapanca colorano la tela bianca. Sono la proiezione iperdettagliata e sovradimensionata di un’epopea quotidiana qualunque.
Al di là dello schermo, come elementi di un puzzle, appaiono, realmente, i complementi d’arredo proiettati. Non subito ma con i giusti tempi teatrali. Che mediano tra la consapevolezza e la sorpresa di ciò che avviene sul palco.
La performer – Valentina Bravetti -, inizialmente immersa in un nero spazio svuotato, poi in continuo gioco di rimandi tra ciò che è proiezione e ciò che è reale, prende in consegna le immagini e sceglie di lasciarsi alle spalle questo flashback onirico e di ritrovarsi, sola, davanti alla propria camera da letto, uguale o simile a tante altre camere da letto viste sfogliando riviste di design.
Questa immagine è immediatamente nascosta allo sguardo da pannelli mobili, quasi a voler significare una scabrosità del dimorare quotidiano.
Il nuovo lavoro di Città di Ebla, oggi al debutto nazionale, diventa, se mi assiste l’invenzione lessicale, un instant live art. Gli scatti fotografici effettuati dal fotografo Luca Di Filippo di e in scena, diventano il presente, di cui siamo spettatori, esclusivamente per mezzo della restituzione per insiemi di immagini. Proiettati seguendo una ritmica che è diretta conseguenza della relazione della coppia. Lui disegnatore, lei artista – presupposto azzardato e fondato sul fatto che la rivista che sfoglia è un noto periodico d’arte. La tecnica, chiamata real time shooting, è una tecnica espressiva nata dalla collaborazione tra la compagnia e il fotografo. Amplificano la visione i dettagli ritratti nella successione fotografica: una vita semplice che scorre, serena e piacevole, tra merende a base di pasticcini, letture, schizzi a carboncino e risatine. Colonna sonora – composizioni originali a cura di Franco Naddei – diventano i rumori di un ipotetico esterno giorno che non disturba gli amanti ma li circoscrive, esaltandoli, in una dimensione di protezione reciproca, scelta e difesa.
È la successione degli scatti frame by frame a raccontare la storia. Le differenti variazioni di viraggio scandiscono le ore e gli stati emozionali.
Finché la dolcissima banalità dei nostri giorni, dei loro giorni, dei giorni di tutti gli esseri umani, viene gettata via come carta straccia e spenta come mozzicone di cicca.
Lui muore.
La fotografia live, una scelta originale e molto apprezzabile nella sua dimensione radicale, cede il passo al montaggio fotografico del dolore, squarciato nel finale dalla reale presenza dell’attrice che rotola annientata sul letto matrimoniale. Una sequenza ben riuscita di videodanza di un corpo-insetto in lutto. Ricorda, cita quasi, il precedente lavoro della compagnia, liberamente ispirato a La Metamorfosi di Kafka.
Potenti sonorità techno affiancano e sostengono le immagini in un crescendo di pathos percettivo. La scena vira in un cupo rosso da concerto pop. Scende la neve e la camera, improvvisamente coperta dal telo bianco che prelude al trasloco e all’abbandono, scompare dietro effetti visivi di albe boreali e suoni dream rock che descrivono il sogno d’amore svanito.
Il genere umano è una lunga catena di ombre diafane prossime alla morte. Struggente.