Il romanzo inchiesta di Marco Codebò, professore di Letteratura e lingua italiana alla Long Island University di New York, si snoda intorno alla figura dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato durante un interrogatorio – in cui veniva accusato della strage di Piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969 e nella quale sono morte diciassette persone – da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre.
La prosa è colorita, variegata, scorrevolissima, nonostante i periodi lunghi e la punteggiatura a volte striminzita. A partire dall’articolo di Pier Paolo Pasolini del 14 novembre 1974, uscito sul Corriere della Sera e che recita così: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.», Codebò fonde il puro esercizio stilistico con eventi/protagonisti reali – Sandro Pertini, il confino a Ventotene, il questore Marcello Guida e la bomba alla Banca dell’Agricoltura – e, anche, finzionali – Jeremy Ventura, Telemaco Neofytos, Eumeo Samaritani – .
La tesi di Codebò emerge chiara nel susseguirsi delle pagine: la strage di Piazza Fontana fu pianificata e organizzata da elementi deviati dello Stato e da persone che volevano frenare l’avanzata delle sinistre mirando, soprattutto, alla destabilizzazione della democrazia italiana, anche in favore di possibili golpe dittatoriali – vedi il tentato golpe Borghese della notte dell’Immacolata del 1970. Strategia della tensione è, ancora oggi, il sintagma più adatto per definire l’insieme di alcuni attentati che si susseguirono durante gli anni di piombo. A distanza di ben quarantadue anni, Codebò ci spinge a non affossare i fatti sotto un cumulo di cenere e omertà, o meglio, di macerie. Egli ci consiglia d’indagare alla ricerca della verità, di scartabellare negli archivi ricercando indizi nascosti, presenti nella loro reiterata assenza. Questo bisogna farlo per non obliare la memoria di Pinelli, per rendergli giustizia. Solo così il lavoro dell’archivista può essere, nello stesso istante, duplice: da una parte egli diventa il sabotatore di quella verità oramai data per assodata, dall’altra si trasforma nel profanatore di quella tomba in cui è custodito ciò che è realmente accaduto e che deve essere riportato nuovamente alla luce come un tesoro.
D’impatto e di commozione è l’ultimo capitolo del libro, con le testimonianze della sorella di Pinelli e di sua moglie Licia; pagine che raccontano di un uomo lavoratore, mite, amante della famiglia e sì anche del pensiero anarchico, ma non per questo terrorista e bombarolo. Pinelli fu innocente, estraneo totale all’attentato di piazza Fontana, una dichiarazione forte e che la gente condivide: «Basta ricordarsi il funerale. Al funerale c’erano tutti i nostri amici d’infanzia che noi non ce li ricordavamo nemmeno, ma moltissimi sono venuti a salutarmi che proprio erano venuti perché nessuno credeva a questo. Per chi l’ha conosciuto, anche da bambino, da ragazzo perché praticamente lì a Porta Venezia ci siamo stati una decina d’anni, forse un po’ più, quindi lo conoscevano in tanti, io ho visto molte persone al funerale che sono venute, anche amiche mie di dopo, la Gina, tutte quelle lì, tutte sono venute, lo conoscevano e sapevano, sicurissimi tutti che non fosse stato lui. Non c’era dubbio».
LA BOMBA E LA GINA
di Marco Codebò, Round Robin editrice, Roma 2011.