di e con Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci e tecnica Max Mugnai
drammaturgia Roberto Latini, Barbara Weigel
regia Roberto Latini
movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri, Lorenzo Martinelli
organizzazione Nicole Arbelli
produzione Fortebraccio Teatro
in collaborazione con L’arboreto – Teatro dimora di Mondaino, ATER Circuito Regionale Multidisciplinare – Teatro comunale Laura Betti, Fondazione Orizzonti d’Arte
con il contributo di MiBACT, Regione Emilia-Romagna
30 settembre 2016, Teatro Vascello, Roma
Già nel titolo è preannunciato il tema dell’opera, che vede nel simbolo + una croce medievale a separare le due macchine sceniche innescate da Amleto e Fortebraccio, alterego l’uno dell‘altro, entrambi figli di re di cui portano il peso di nome ed eredità. È chiaro sin dall’inizio il gioco metateatrale al quale il regista ci invita, inserendo nel titolo Fortebraccio – che è anche il nome della compagnia teatrale- con l’intento di distanziarsi dall’opera e forse di anticipare già nella grafia l’elemento mortifero insito nella vita. Fortebraccio è il non-personaggio, figlio, straniero, estraneo che arriva in scena quando “il resto è silenzio”, è la fine e l’inizio. Fortebraccio è Amleto, così come Amleto è Ofelia e ognuna delle vittime della carneficina innescata dal delitto primigenio del fratricidio.
Assai arduo è raccontare senza svelar troppo uno spettacolo di questa intensità e potenza metaforica che fa dell’essere e non essere il paradigma di tutto l’apparato drammatico. Roberto Latini porta in scena una rielaborazione della riscrittura di Heiner Müller che negli anni ’70 aveva composto Die Hamletmaschine. Seguendo la divisione in capitoli dell’autore tedesco, Latini attinge con maestria ed intelligenza ai due drammaturghi, Shakespeare e Müller appunto, passando da Marilyn Monroe, al monologo di Rutger Hauer di Blade Runner, a Totò, Leo de Bernardinis e Carmelo Bene, senza divenirne schiavo; riesce anzi ad orchestrare queste presenze, di cui il nostro patrimonio culturale è infestato, in un alternarsi di sonorità familiari, fortemente comiche e al contempo commoventi anche grazie alla sequenza di azioni e performance in cui la parola detta e quella registrata, il dire amplificato e la presenza non mediata dell’attore, sono parte di un meccanismo ininterrotto di dubbio esistenziale.
Nelle vesti di un attore kabuki Roberto Latini si fa interprete e medium dell’archetipo shakespeariano, rifiutandosi di essere, rifiutando di non essere, dando luogo e spazio ai suoi possibili essere. Per citare Müller: «Io non sono Amleto. Non recito più alcun ruolo. Le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano sangue alle immagini. Il mio dramma non si terrà più. Dietro di me viene approntato lo scenario. Da gente cui il mio dramma non interessa, per gente cui non ha niente da dire. Neanche a me interessa più. Non sto più al gioco.»
Una voce registrata chiede più volte “Where is the sight?” Dov’è lo spettacolo? Ecco il dubbio amletico: comincia il gioco teatrale vero e proprio. Con il suo monologo rivolto ad un microfono proveniente dal cielo, Amleto si dimette dal suo ruolo, si ribella al destino che gli è stato assegnato, dando inizio allo spettacolo di sé.
Troviamo quindi un Amleto avvolto in un vestito bianco, a metà tra la camicia di forza e il kimono, è follia e sacralità, è Occidente e Oriente, vestito del colore della purezza per gli occidentali eppure a lutto per gli orientali, è tutti e non è nessuno. Nelle mani stringe dei drappi rossi contro i quali lotta in una danza disperata, dimenandosi contro l’eredità di sangue che di padre in figlio veste ogni essere umano dai tempi di Caino e Abele e dalla quale cercherà di spogliarsi. Nonostante tutto Amleto non riesce a liberarsi da quest’opprimente mito che è chiamato ad interpretare in una sorta di inesorabile girone dantesco. La macchina, citata nel titolo, è lo scardinamento dei ruoli di chi non sta più al gioco e tuttavia non può sottrarsene. La giostra infernale continua: tentando di uscire dalla messa in scena di se stesso, Amleto impersona tutti i personaggi del dramma in un monologo composto di suoni, parole registrate, amplificate, dette, sussurrate e agite performativamente nell’interazione con la scenografia costituita da una griglia pendente e da un cerchio luminoso di led sospeso in aria, simbolo evidente della ciclicità di vita e morte.
La violenza domina ogni elemento dello spettacolo, persino nello spazio scenico in cui una griglia appesa al cielo del teatro incombe minacciosa sull’attore e una spada appesa a quest’ultima, fatta roteare come lancetta di un orologio, scandisce il tempo in ore di sangue. Eppure il cerchio luminoso di led, ora campana dai rintocchi funerei, ora architettura scenica fantascientifica ed angelica, sembra suggerire la possibilità di luce e riscatto. Persino la temuta Morte viene demistificata, facendo la sua apparizione comica nelle vesti di una drag queen in leggins e tacchi rossi laccati.
Attraversi diverse citazioni ed omaggi, come la Dichiarazione universale dei diritti del cittadino pronunciata in latino, Latini inneggia alla fratellanza, sottolinea e schernisce i valori di un’umanità che persevera nel tradimento di se stessa, creando momenti di tragica comicità e donando immagini di grande poesia. Di indimenticabile forza drammatica l’happy birthday di Ofelia/ Marilyn Monroe cantato da un vestito bianco agitato dal vento e sorretto da Amleto che, rotto dalla disperazione, intona la canzone pronunciando un flebile “Happy…” Lo spettacolo sembra essere un monumento ai caduti, alle vittime della condizione umana il cui amore per la vita, in un mondo di violenza, gli è stato fatale.
In una performance di cui non riveleremo tutte le trovate, grazie alla co-drammaturgia di Barbara Weigel, accompagnata in questo viaggio dalle notevoli composizioni musicali di Gianluca Misiti, Latini è capace di commuovere e turbare l’animo, di uccidere e dare nuova vita. Amleto quindi non è più l’Amleto di Shakespeare, ma tutti i possibili Amleto, il mito si moltiplica, in sé è il fantasma di suo padre e il fantasma di se stesso.
Così il protagonista, l’Uomo, Amleto, in un limbo, ripete la sua storia all’infinito: invertendo tempo e ruoli del dramma ed evocando fisicamente lo spettro del padre cui racconterà la vicenda svoltasi, forse troverà una risposta al quesito iniziale. Si prospetta così, nel finale aperto, un bagliore di speranza, secondo la funzione drammatica data da Muller: «Ciò che è morto, non è morto nella storia. Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti – il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro.»