Doppio appuntamento serale al Piccolo Eliseo, con due spettacoli strutturalmente simili, dall’argomento molto diverso e accomunati dall’essere stati entrambi finalisti, in diverse edizioni, del noto Premio Dante Cappelletti.
Sì, l’ammore no, di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano, presenta una dirompente molteplicità di linguaggi – partiture fisiche, monologhi, parti cantate, spezzoni audio, scene a due, interazione col pubblico -, utile a navigare, con l’ironia che già il titolo fa presagire, gli stereotipi sugli uomini, sulle donne e sui rapporti tra i primi e le seconde. Tema portante e dichiarato è che l’uomo romantico è intrinsecamente fascista e che la donna che accetta questo modello non fa che rinunciare a parte della propria dignità. In effetti, forse un cuore non andrebbe tanto conquistato, come si trattasse di una guerra – dove la sconfitta finisce poi per essere pure grata al vincitore -, ma avvicinato… Nell’alternarsi dei quadri, tra cui spiccano il dissacrante sposalizio, la divertente intervista ai poveri spettatori e il quadro finale il cui senso è dato dal sovrapporsi di canzoni popolari apparentemente lontane tra sé, ma in realtà assai vicine, i due artisti hanno portato in scena non solo il matrimonio di Daniele ed Elvira, ma anche dei propri linguaggi, facendone nascere un terzo, ibrido, di cui si fatica a dire se assomigli di più a mamma o papà – ma è davvero un problema?
Atmosfere completamente diverse quelle di XXX Pasolini, lettura interiorizzata dell’autore e regista Fabio Massimo Franceschelli dell’opera pasoliniana tutta e in special modo di quella che avrebbe dovuto esserne la summa, l’incompiuto Petrolio. Se gli occidentali «non possono non dirsi cristiani», probabilmente i contemporanei non possono non dirsi pasoliniani: o in quanto interpreti del suo pensiero, o in quanto oggetti del suo pensiero. Così, emulando almeno da un punto di vista strutturale proprio il romanzo di Pasolini, a susseguirsi sulla scena sono dei frammenti – compiuti -: inquietanti, come quelli più chiaramente ispirati al romanzo, o grotteschi, come quelli più originali – in forma di spot, telegiornale, ecc. -, in cui più che sentire la voce del vate, siamo costretti a toccare con mano quanto le sue profezie fossero lucide. Un fil rouge sembra percorrere l’intero spettacolo, quello della dissociazione, quanto e forse anche più che nel romanzo di riferimento. L’esempio più chiaro è quella mostrata su più livelli dall’attrice che, di fatto, interpreta Pasolini – una borgatara che parla un linguaggio colto; il corpo di donna prestato al personaggio uomo -, ma tanto cupa è la visione offerta dal materiale, che la dissociazione pare offrirsi – o essere offerta – come rimedio mentale per fuggire da una realtà così gretta da apparire altrimenti insostenibile mentre l’efficacia, specialmente mimica, dei cinque giovani interpreti, ci costringe a specchiarci su superfici non sapremmo dire quanto deformanti.
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