Un gioco di rimandi tra la partitura musicale di Olivier Messiaen e l’esecuzione scenica dei Santasangre, un’intersecarsi di temi e suggestioni ispirati al mito d’amore e morte di Tristano e Isotta. Harawi è andato in scena al Teatro Vascello nell’ambito del Romaeuropa festival; allo spettatore tutta la libertà di sciogliere o meno la matassa.
Harawi Testo e Musica Oliveir MessiaenSoprano Matelda Viola
Pianoforte Lucio Perotti
Ideazione Diana Arbib, Luca Brinchi, Dario Salvagnini, Roberta Zanardo
Con Maria Teresa Bax, Marcello Sambati, Antonello Compagnoni, Monica Galli
Produzione Sagra Musicale Malatestiana e Santasangre
Con il contributo della Regione Lazio
Con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Snob production/MIT 21-23 Novembre 2013, Teatro Vascello, Romaeuropa festival
Ciò che possiamo dire con sicurezza di Harawi è che si snoda su più livelli. Lo riscontriamo innanzitutto nella struttura dello spazio scenico costruito dai Santasangre, gruppo romano di ricerca artistica nato nel 2001. Due teloni trasparenti, sui quali vengono a più riprese proiettate delle immagini, dividono il palco in tre luoghi. Nel luogo più lontano intravediamo il pianista Lucio Perotti e il soprano Matelda Viola, che eseguono dal vivo Harawi di Olivier Messiaen. Composta nel 1945, nutrita del folclore peruviano, è la prima di tre opere aventi per tema l’amore umano -in discontinuità rispetto a quell’amore divino celebrato dal compositore francese fino ad allora-, ispirate al mito di Tristano e Isotta.
Nello spazio più prossimo agli spettatori fanno la loro comparsa un ginnasta ed una falconiera, al cui richiamo arriva in volo un rapace. Sullo sfondo scorrono immagini di muri di Roma e della stazione Termini. È in questa cornice che prende corpo la vita quotidiana di Maria Teresa e Marcello, una coppia di anziani, i Tristano e Isotta dei Santasangre. Nella fascia centrale del palco la loro quotidianità è resa con gesti repentini e a volte ripetitivi, avvicinamenti e allontanamenti, senza nessuna parola. Le linee della narrazione, se possiamo definirle così, sono affidate al ginnasta: ciò che lui scrive viene infatti proiettato sul telo alle spalle dei due personaggi. Così come ce li presenta, scrivendo i loro nomi, ne decreta in qualche modo la morte, facendo apparire la scritta: «It’s a perfect day pour la mort». A questo punto sembrerebbe che il ginnasta, simbolo di forza e prestanza -non scordiamoci l’entrata in scena insieme al falco-, decida la fine della vicenda della coppia. Ma Marcello si alza e modifica la scritta così: «It’s a perfect day pour l’amour», e la vita continua. L’impressione, in ogni caso, non è tanto quella di assistere ad una storia quanto quella di galleggiare in una dimensione altra. Scorrono immagini informi, provenienti da un immaginario onirico, che si fondono con le lontane note di Messiaen.
Chiudono lo spettacolo immagini dell’aereoporto di Fiumicino, la frenesia senza tregua della metropoli. Forse in quest’epoca in cui tutto ciò che appare è pronto per essere sostituito, in cui tutto scorre veloce, c’è ancora spazio per quell’amore totale, che con i suoi automatismi di costante presenza sembra trascendere il piano del qui ed ora per entrare in quello del sempre, dell’eternità. Ed è proprio questo il terreno di incontro/scontro di quelle due grandi forze, amore e morte, protagoniste assolute della rappresentazione.