regia Jan Fabre
testi Johan de Boose
musica Raymond van het Groenewoud, Andrew James Van Ostad
con Annabelle Chambon, Cédric Charron, Tabitha Cholet, Anny Czupper, Conor Thomas Doherty, Stella Höttler, Ivana Jozic, Gustav Koenigs, Mariateresa Notarangelo, Merel Severs, Ursel Tilk, Kasper Vandenberghe, Andrew James Van Ostade
30 settembre 2017, Roma, Romaeuropa Festival
Dopo le 24 ore di Mount Olympus – To glorify the cult of tragedy, ospite del Romaeuropa Festival 2015 e premio Ubu 2016 come migliore produzione straniera, torna Jan Fabre con un omaggio al suo paese natio sotto una veste visionaria e scalpitante: Belgian Rules/Belgium Rules. I suoi 15 “guerrieri della bellezza” (così il regista chiama i suoi performer) raccontano il Belgio attraverso i loro corpi e le loro parole, accompagnati dalle musiche di Raymond van het Groenewoud e Andrew James Van Ostade, creando una dimensione di stampo felliniano, una dedica a questa piccola nazione proprio come Fellini fece alla sua Roma.
«Il teatro giace alla nascita di questo piccolo paese e il teatro è ciò che questo piccolo paese rimarrà». Sono queste le parole di Fabre per presentare lo spettacolo, non soltanto come metafora, ma pragmaticamente per ciò che riguarda la nascita della nazione in sé: è stato durante l’esecuzione dell’opera La Muette de Portici (La ragazza muta dei Portici) che ha avuto inizio la rivoluzione belga, partita proprio dal pubblico che ha cominciato a rivoltarsi e insorgere, fino a far diventare il Belgio una monarchia costituzionale nel 1830. «Uno Stato artificiale e instabile, utilizzato come palcoscenico per guerre altrui»
Belgian Rules si concentra su artisti, tradizioni, usi e costumi, mostrando senza nessuna vergogna ciò che rappresenta il paese nella mancanza totale di un nazionalismo. Perché è questo ciò che traspare dalle parole degli attori o dalle coreografie oniriche fino a quelle più ritmate: un popolo multiculturale e multinazionale forgiatosi proprio a causa delle molte guerre straniere combattute sul territorio e che è divenuto una piattaforma fertile per le arti, dai pittori fiamminghi e dai polifonisti fino al surrealismo e ai cartoni animati.
A raccontare il teatro e a rappresentarlo è proprio il personaggio del porcospino, percorrendo la storia e analizzando il contesto culturale contemporaneo: il teatro della crudeltà, il teatro osceno, il teatro borghese e così via dicendo, che si riflette nello specchio di una società orgogliosa della sua mancanza d’orgoglio, una surreale identità in cui le bandiere belga vengono sventolate soltanto quando gioca la loro squadra di calcio.
Di contro i piccioni rappresentano coloro che hanno sempre abitato la città, ormai coinquilini indesiderati da parte del popolo belga e malmenati. Incompresi e scacciati a suon di bastonate cercano sempre di prendere parte alle attività degli umani, ricordando loro chi li ha aiutati a vincere la guerra. Insomma una casta ormai detestata, ma sempre presente.
In un viaggio di quattro ore, in cui fin dall’entrata del pubblico è presente un corpo sulla scena e senza intervalli, è possibile ammirare come Jan Fabre e i suoi “guerrieri della bellezza” affrontino l’opera come una celebrazione e allo stesso tempo come una lettura critica. Lo spettatore assorbe informazioni attraverso le immagini forti, gli effetti, i movimenti compulsivi dei danzatori, le parole taglienti e ciniche di alcuni monologhi, ma anche attraverso la sensorialità, l’odore intenso della birra che comincia a spandersi nella sala come premio a delle regole in cui nemmeno si crede, o dell’incenso quando si parla di religione, o del fumo di un sigaro quando il porcospino fa il suo ritorno.
L’industria bellica, lo sport, la droga e l’alcol, il sesso, fanno tutti parte di una riunione vista come una festa, di una collisione tra parola e immagine, di una critica verso il governo e di uno scetticismo verso le regole. Questo rapporto individualistico con la legge è un tema importante nello spettacolo, dove la sovversione diventa genetica in Belgio e per farlo si avvale fortemente dell’arte e dell’ironia che, come dichiara Fabre «è una cellula nervosa all’interno del mio lavoro, che sia il lavoro plastico, teatrale o letterario. È qualcosa che si nasconde in modo organico nel cuore del mio lavoro».
È vero. L’ironia non è mai forzata e l’opera è un chiaro processo d’integrazione delle arti, non soltanto quelle viste dallo spettatore, ma anche soltanto quelle evocate. Il Belgio stesso viene celebrato come esempio di una nazione che gode di una naturale integrazione: basti pensare che ben 117 nazionalità diverse coesistono ad Anversa. È una diversità che si spera arricchisca e ispiri sempre tutta la popolazione e l’umanità in generale.
Belgian Rules/Belgium Rules è una lente d’ingrandimento che analizza l’immaginario e la cultura di un intero paese, partendo da una storia fatta si sangue e guerre, attraversando il mondo degli artisti come Rubens, Bosch, Magritte e arrivando alla contemporaneità contornata anche da birra e patatine fritte.
Un dipinto a-patriottico ironico e provocatorio dove tutta l’Europa viene a rispecchiasi.