Andato in scena il 16 e 17 marzo al Teatro Palladium per il progetto Puglia in scena, all’interno del Festival Romaeuropa, Acido fenico è una ballata in canto e controcanto tra Mimmo Carunchio, camorrista interpretato da Fabrizio Saccomanno, e il coro dei Sud Sound Sistem. Riallestito in occasione dei vent’anni di carriera dei Sud Sound Sistem, lo spettacolo è prodotto da Cantieri Teatrali Koreja.
Acido fenico
Testo: Giancarlo De Cataldo
Progetto e regia: Salvatore Tramacere
Con: Fabrizio Saccomanno
Coro, musiche e canzoni dal vivo: Sud Sound Sistem, Don Rico, Gigi D./Papa Leu, Nando Popu, Papa Gianni, Terron Fabio
Scene e luci: Lucio Diana
Cura tecnica: Mario Daniele, Angelo Piccinni
Organizzazione: Laura Scorrano
Costumi: Cristina Mileti
Produzione: Cantieri Teatrali Koreja
Dal 16 al 17 marzo – Romaeuropa 2013, Teatro Palladium, Roma
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Acido fenico è, dappertutto, lo stesso odore «di alghe morte, di petrolio, di corda incatramata, di merda di gabbiano, e quel vento che qui chiamano scirocco e dovunque ci sia il sud fa sempre lo stesso effetto: occhiaie vuote, guance scavate, i muscoli fiacchi e il cervello che ti gira come una botta di coca e una maledetta voglia di scoparti tutto quello che sa di femmina». Mimmo Carunchio si porta addosso questo odore fin da bambino. È l’odore della povertà.
I figli dei dottori, a scuola, sono i primi a riconoscerlo, e a indicarlo alle magnanime Dame di San Vincenzo, «quattro troioni impellicciati carichi di pacchi» per fare l’elemosina ai bambini sfortunati. Succube di una simile passerella che lo fissa con ostinazione, Mimmo Carunchio decide di diventare camorrista. Ma non è obbligato a farlo. «Di tutto quello che ho fatto non mi pento. Se sono qui adesso, se sto parlando, è perché l’ho deciso io. Poi dicano quello che vogliono, non m’interessa». Mimmo ne avrebbe avute di altre possibilità tra le quali scegliere: la Chiesa, con il suo «perdonate, comprendete …»; o i comunisti, «più miserabili di Carunchio Domenico bambino e sempre incazzati», con la prospettiva di fare la fine di Cataldo, che «teneva tutti i numeri per diventare uomo di rispetto, e invece gli piaceva studiare». S’era messo in testa di diventare operaio, sindacalista. Nella fabbrica cercava dignità, lavoro, cultura, per morire appeso all’altoforno.
La prima voce è quella di Fabrizio Saccomanno, interprete di Domenico Carunchio, malavitoso pugliese che racconta la sua vita: dalla città vecchia di Taranto, alle rotte della droga, Genova, Marsiglia, fino alla politica. La sua è una trasformazione attiva del testo qui citato. La sua qualità di testo letterario difficilmente si addiceva ad un mafioso, da qui la rielaborazione in dialetto salentino; per cui l’umidità non «gelava fino alle ossa», ma «gelava intra». Per tutto il corso della messa in scena Carunchio parla camminando e a tratti correndo sul tapis roulant. Si rivolge ad un Dottore assente dalla scena, l’autore, magistrato tarantino Giancarlo De Cataldo, scrittore di Romanzo Criminale – non ancora uscito, al tempo dell’unico testo teatrale che abbia mai composto –. Salvatore Tramacere restituisce questa storia con la scelta di un coro singolare, il controcanto dei Sud Sound Sistem. Figure grottesche dalla forte fisicità, i SSS rappresentano quelli che stanno a guardare e commentano seduti in piazza. Prendono una posizione ambivalente: interpretano un drappello di saggi affiliati che, pedalando su quattro biciclette fissate al palco, si parlano secondo la liturgia della Società:
«Saggio compagno, mi sapete dire che dote vi ha dato la Società?
Saggio compagno, a me la società mi ha dato sette belle cose.
Scusate, mi sapete dire quali sono?
Umiltà, serietà, politica, forza politica. Carta, coltello e rasoio.
Chi non può entrare nella Società?
Nella nostra società cinque specie di uomini non possono entrare: infami/sbirri/carogni sotto ogni vesti e sopra vesti e tutti quelli che fanno lavori speciali».
E rappresentano, cantando, la voce moralizzatrice della società civile, che parla ai giovani predicando l’amore contro la violenza e l’ignoranza. Il suo opposto non è Cultura, né controcultura. Piuttosto un’autenticità, un’aderenza a una buona natura umana, solidale contro i guai, molto simile alla carità, insieme alla coscienza di essere al margine, alla periferia dell’impero. Carunchio invece cerca una cultura pratica, efficace. «Si, una cultura. Io tutti me li sono fatti i gradi, l’intera crisciuta: picciotto fatto a voce, picciotto di sangue, picciotto, e poi camorrista con il diritto di spartenza, e mezzo quartini, e quartino e crimine distaccato e finalmente Crimine, Crimine, Crimine: un capo, quello che voi chiamate “un boss”». Quella del regista Tramacere è insomma una sintesi brechtiana tra alto e basso, una stratificazione dal discorso didattico al discorso che produce simboli, in cui Carunchio non è affatto il Male, ma un combattente. Uno che prende la via traversa della paura, per uscire da un ordine naturale che non gli rende giustizia.
Meglio «la forza politica, dottore: significa che uno sa parlare con gli infami e i raggiratori. Assessori e appalti. Si capisce che la città è diventata brutta! Ma è proprio qui che sta il bello, il brutto si deve vedere, così la gente capisce, capisce e se ne sta al suo posto. No … noi il bello ce lo teniamo dentro al cuore. O nel salotto». E poi decine di morti, i funerali di Charles Bronson con tutti gli onori ufficiali, i finti suicidi in carcere e il ritorno a tu per tu con il dottore. A cosa serve confessare, fare nomi? «Adesso voi e noi siamo la stessa cosa: voi siete uno, e non siete nessuno. E io sono uno e non sono nessuno. Io non sono più io perché sono la Società. E voi non siete più voi perché siete la vostra Società. E le Società, la mia e la vostra, se ne fottono di noi».