Lo chiamavano Jeeg Robot, di G. Mainetti, Ita 2015, 112′
Produzione Goon Films e Rai Cinema
Distribuzione Lucky Red
«Da un grande potere derivano grandi responsabilità» dichiarava Ben Parker a suo nipote Peter. Cosa accade però quando questi poteri sono “donati”, in maniera casuale, a un mediocre ladro per di più misantropo?
È lodevole la capacità de Lo chiamavano Jeeg Robot di mescolare, all’interno di una cornice originale, la descrizione delle imprese malavitose – che tanto ora va di moda in confezioni più o meno realiste, più o meno riuscite, da Non essere cattivo di Claudio Caligari a Suburra di Stefano Sollima -, al percorso di formazione di un supereroe tutto made in Tor Bella Monaca. Una commistione di genere che rivela come Gabriele Mainetti, al suo primo lungometraggio, sia un autore coraggioso e con idee azzeccate, poiché il rischio d’incappare, da una parte, in una pura scopiazzatura, dall’altra, in un mero gioco triviale era piuttosto alta. Il regista, nonostante utilizzi molte tematiche, tra l’altro piuttosto serie, a partire dal puro espediente dei rifiuti tossici fino alla visione di una Roma sotto scacco “bombarolo” della camorra, passando per il dramma psicologico e le scorribande delle batterie, riesce sempre a inserire una forte componente ironica che, invece di banalizzare implementa la coerenza della narrazione.
La forza dell’opera sta anche nei due protagonisti, Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti) e Luca Marinelli (Zingaro), che evidenziano, con le loro notevoli performance, due percorsi opposti all’insegna della mitizzazione, volontaria o meno, del loro personaggio. Mentre Santamaria si fa metafora di una redenzione catartica sempre più consapevole, nonostante l’ancestrale intenzione malavitosa all’insegna del fabbisogno, Marinelli s’inabissa in una vorticosa discesa infernale alla ricerca della notorietà che unisce all’efferatezza dei gesti compiuti, la ripresa di due figure cinematografiche: il Joker di Heath Ledger di The Dark Knight e il Dorian di Peter Greene di The Mask. Le immagini saturano della presenza di Enzo e dello Zingaro, quasi mai in contemporanea sullo schermo, fino al super-eroico incontro finale. Menzione di merito va anche a Ilaria Pastorelli, il cui ruolo, fondamentale nell’economia del film, assume una drammaticità, solo a prima vista distaccata dalla realtà, davvero debordante nella sua finta ironia.
La mutazione antropogenetica di un uomo in supereroe prima di essere eticamente universale e coinvolgere l’umanità tout court deve necessariamente fare i conti col trauma personale, con le proprie cicatrici: ce lo insegnano sia Spiderman sia Batman. La trasformazione del proprio nome, in questo caso da Enzo Ceccotti a Hiroshi Shiba, ne è la semplice e manifesta conseguenza.
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