Room, di L. Abrahamson, USA 2015, 118′
Produzione Ed Guiney, David Gross
Distribuzione UNIVERSAL PICTURES
@ Decima Edizione Festa del Cinema di Roma
Ciò che spinse la scrittrice canadese Emma Donoghue alla stesura di Room, suo settimo romanzo, fu uno scioccante fatto realmente accaduto in Austria. Nel 2008, la quarantaduenne Elizabeth Fritzl, dichiarò alla polizia di aver vissuto per ventiquattro lunghi anni segregata nel corridoio della propria casa e di aver subito incessanti abusi da parte del padre, Josef. Liberamente ispirato a questo episodio di cronaca, Room si rivela uno dei romanzi più fortunati della Donoghue, nonché il più premiato. Fortemente attratto da questa storia, il regista canadese Lenny Abrahamson nel 2015 decide di dirigere un film . Rimanendo fedele al romanzo, Room narra la vicenda di Joy e di suo figlio Jack, prigionieri all’interno di una stanza di appena dieci metri quadrati, costretti a vivere segregati da Old Nick, l’uomo che rapì la ragazza circa sette anni prima. Nonostante le avverse condizioni, Joy e Jack riescono a creare un’armonia, una pseudoquotidianità claustrofobica in grado di superare questa condizione normale per il bambino, nato e cresciuto in questo spazio, e opprimente per la madre. Armonia che inizia a vacillare dopo il quinto compleanno di Jack., quando la voglia di libertà e riscatto porta i due ad una svolta.
Abrahamson riesce a creare con grande abilità, due ambienti diversi tra loro e protagonisti di due fasi distinte della pellicola: un ambiente chiuso quello della stanza, riflesso di un stato emotivo denso di oppressione e suspense, in grado di coinvolgere anche lo spettatore più distaccato, e un ambiente aperto, all’esterno, fuori dalla stanza, nel mondo reale, teoricamente lontano da quel senso di costrizione, ma limitato sotto ben altri punti di vista(esemplificati dal soffocante comportamento dei media, e dalle inevitabili tensioni familiari causate da un simile shock). La vita ritrovata fuori, non è per nulla familiare per il piccolo Jack, così come il rapporto con la madre, mutato dopo la fuga. Quella stanzetta grigia e sinistra, alimentava infatti un legame fortissimo tra madre e figlio. Una simbiosi che sembra indebolirsi con il ritorno nel mondo reale. Il coinvolgimento in questo intenso stato emozionale diviene totale sin dalla prime sequenze. Il grande merito va a due protagonisti in grado di reggere alla perfezione una scena molto delicata. La Joy interpretata da Brie Larson, acceca con una forza drammatica degna di nota, trascinando lo spettatore in uno stato di partecipazione quasi totale. In una scena del film Joy rientra per la prima volta dopo sette anni nella sua stanza, rimasta intatta fino a quel momento. Il senso di mancanza e di inadeguatezza permea il suo animo, facendole sentire il figlio come un estraneo. Una sensazione che ben presto svanirà per lasciare spazio alla riscoperta di un legame fortissimo capace di annientare ogni angoscia e rimpianto con il piccolo Jack, interpretato dal giovanissimo e sorprendente Jacob Tremblay. Ora in concorso alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma, Room riesce ad incantare il pubblico, e a lasciare il segno. Abrahamson, è abile nel saper tirare fuori il meglio da ogni attore, convincendo tutti. Il suo lungometraggio è un inno alla (ri)scoperta del reale: è brusco come il risveglio dopo un claustrofobico letargo, e allo stesso modo delicato come il rumore di una foglia che atterra al suolo.