Regia: Marco Tullio Giordana
Soggetto e Sceneggiatura: Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Stefano Rulli
Fotografia: Roberto Forza
Montaggio: Francesca Calvelli
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Francesca Livia Sartori
Musiche: Franco Piersanti
Cast: Valerio Mastandrea (Luigi Calabresi), Pierfrancesco Favino (Giuseppe Pinelli), Michela Cescon (Licia Pinelli), Laura Chiatti (Gemma Calabresi), Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Luigi Lo Cascio (Giudice Ugo Paolillo), Giorgio Colangeli (Federico Umberto D’Amato), Omero Antonutti (Presidente Giuseppe Saragat), Sergio Solli (Questore Marcello Guida), Giorgio Tirabassi (Il Professore), Stefano Scandaletti (Pietro Valpreda)
Produzione: Cattleya in collaborazione con Rai Cinema (con il sostegno di Eurimages, Italia)
Durata: 130 min.
Il romanzo ha inizio dall’anno 1969, pochi mesi prima la strage di piazza Fontana, causata dall’esplosione di una (due bombe?) all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Il commissario Luigi Calabresi, professionale ma insicuro, segue la pista anarchica dei pulviscoli giovanili in protesta con lo Stato. Quando la strage provoca la morte di 17 persone e il ferimento di 88, l’indagine si fa inevitabilmente più serrata e violenta. Calabresi conosce bene Giuseppe Pinelli, uno dei maggiori sospettati secondo i rapporti dei superiori Marcello Guida e Antonino Allegra; Luigi però è convinto che Giuseppe sia un non-violento e un pacifico contestatore. Viene arrestato però un certo Pietro Valpreda, neofascista che confessa di aver messo lui la bomba più grave, mentre le contraddittorie voci del potere seguono anche la pista dei neonazisti veneti. Ma a causa di un incidente, all’interno del distretto di polizia di Milano, Pinelli cade dalla finestra dell’ufficio di Calabresi che non è presente al momento del grave fatto, e Giuseppe muore in ospedale.
La vita di Calabresi diviene un incubo: inizia ad essere minacciato dagli anarchici e falsamente identificato dalla gente e dalla stampa come il diretto responsabile dell’accaduto. Seguono diversi arresti di giovani anarchici, ma Calabresi, continuando ad indagare sulla strage, scopre legami segreti col traffico internazionale d’armi. Il ministro Aldo Moro, a suo tempo, dubitò prima di tutti, sulla trasparenza dello Stato, attraverso una confessione dolorosa in segreto con il Presidente del Consiglio Giuseppe Saragat.
Calabresi scopre un deposito clandestino d’armi nel Carso. Armi che usano un po’ tutti. Confessa di essersi fatto una idea ben precisa sulla famosa strage e due giorni dopo, il 17 maggio del 1972, Calabresi è ucciso sotto casa. Qui si chiude il film, non la storia della cosiddetta strategia della tensione.
Gli anni Settanta, un decennio di estrema tensione per la vita degli italiani, è descritto dal regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana, con grande cura nei dettagli, per quel che concerne i costumi, il trucco e le scenografie; per un film che ha la sua base, il suo punto di forza, nella scrittura romanzata (la sceneggiatura è scritta anche da Rulli e Petraglia), estrapolata da tutta una serie di testi, di comunicati stampa, di stralci di processi e confessioni di più e meno noti esponenti del governo e dei media.
Romanzo di una strage è un film ben scritto, accurato nel contestualizzare con abilità una vicenda delicata che apre porte a tanti fattori altrettanto delicati; è recitato benissimo da tutta una serie di ottimi attori, giovani e vecchi, e da notevoli caratteristi (su tutte spicca la caratterizzazione di Fabrizio Gifuni che interpreta Aldo Moro, tanto azzeccato il ruolo quanto efficace la sua interpretazione).
Ma, come nella parola stessa del titolo, il romanzo soffoca in parte il film perché sono troppi i dettagli da raccontare e da mettere a fuoco, nonostante la sintesi del mosaico di eventi luttuosi giovi al film, mentre lo stile, caratterizzato da un linguaggio prettamente televisivo, amplificato dall’uso del teleobiettivo che schiaccia notevolmente i personaggi all’interno di un soffocamento che, comunque riesce a dare i suoi frutti, riduce in parte l’efficacia del dato filmico. In questo Giordana si distanzia dall’esempio del maestro Rosi, che sapeva raccontare come pochi altri, attraverso lo spettacolo e la forza del cinema, la realtà e la verità di un cinema civile che ora sembra tornare prepotentemente alla ribalta, in un’Italia affossata dai propri errori e sporchi “attori” (vedi soprattutto l’esempio di Gomorra).
Quell’io so ma non ho le prove, della voce di Pasolini, che in un articolo spiegava di sapere e di conoscere tutti i colpevoli e che usava la parola romanzo all’interno del suo discorso, ha ispirato il titolo del film di Giordana, che diresse tra l’altro il film Pasolini, un delitto italiano nel 1995.
Pasolini anticipò molti problemi/scandali, era una sorta di profeta; pariteticamente, Giordana, adottando uno stile glaciale da inchiesta, lungo una sottile linea di tensione, ci mette sul banco degli imputati tante verità ormai non più nascoste.
Oggi, trascorsi più di quarant’anni, le associazioni a delinquere si giovano ancora dei frutti di un indissolubile legame con il fondo nero della realtà dei fatti.
Senza scomodare i grandi maestri del cinema civile, il nuovo film di Giordana -certamente fra quelli fatti finora si tratta del più riuscito- aiuta a riflettere sulla coscienza di un Paese, l’Italia, senza più coscienza e con una strage di ferite, ormai quasi tutte romanzate, da rimarginare.
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