Glory Holes è il primo dei nove capitoli di un progetto performativo sul tema della morte e della resurrezione. La struttura che ha ispirato Giulio Stasi, traduttore, ideatore e regista della prestazione, appartiene al film scritto da Mauro Andrizzi e Marcus Lindeen Accidentes Gloriosos, che ha vinto il Premio Orizzonti al Festival del Cinema di Venezia 2011. Anche la pellicola racchiude nove storie diverse, legate dal trapasso e dalla metamorfosi.
«Un buco. Un attore e uno spettatore. Un dono d’amore per pochi. Un rapporto intimo e personale fra due sconosciuti. Undici minuti. Un orgasmo trascendentale che illumina. Un racconto delicatissimo sulle gabbie che ci impediscono di volare».
Glory Holes non prevede un pubblico numeroso: tra performer e spettatore si instaura un rapporto da singolo a singolo, come nelle relazioni più intime e private della vita umana. Ogni spettatore viene accompagnato a una postazione libera, da una ragazza vestita di bianco. Il buio dell’ex mattatoio – sede del MACRO di Testaccio – è denso e avvolgente. Le performance avvengono all’interno di grossi tubi in PVC, con un diametro sufficiente a permettere all’avventore di star seduto comodo, in rigoroso silenzio.
Le attrici che eseguono il monologo – della durata di undici minuti –, sono sei, tante quante le postazioni. C’è un unico testo che echeggia tra i sussurri: è la storia di un uomo che muore dopo aver ricevuto una prestazione sessuale orale da uno sconosciuto attraverso un glory hole – un buco nella parete che garantisce l’anonimato. E anonime, sono anche le interpreti della brevissima pièce.
Il racconto suadente inchioda l’ascoltatore; dall’iniziale imbarazzo dovuto alla vicinanza, all’intimità, l’esperienza si configura poi come voluttuosa, confidenziale e spirituale. La dimensione è sospesa, suggestiva: un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso le avventure di qualcun altro. È proprio nel contatto diretto e ravvicinato che Giulio Stasi inserisce la sua ricerca: l’illusione della quarta parete appare ormai troppo friabile e alienante, nell’era in cui il cinema detiene il monopolio della verosimiglianza. Gli artisti di teatro non possono dunque che tentare l’esplorazione e la sperimentazione per regalare ancora emozioni di ogni sorta, dal piacere dell’intimità al disagio della diffidenza.
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